domenica 1 novembre 2009

Oggi muore Alda Merini


E quindi uscimmo a riveder le stelle

Oggi muore Alda Merini. Il rischio della banalità sta sempre dietro l’angolo, quando qualcuno muore. E di più quando muore un poeta. Quando muore un poeta, muore un po’ dell’amore, di quel poco amore che c’è nel mondo.


Questa non è una commemorazione. No! Il teatrino dei politicanti, dei «falsi intellettuali, giornalisti ignoranti, eroi, navigatori, profeti, vati, santi» è più in agguato che mai in questi momenti. E rimbalza su tutti i mezzi di distrazione di massa. Tutti, tutti avvoltoi appollaiati sulla spalliera del letto di Alda Merini, donna disobbediente, donna viva.

A lei non sarebbe piaciuto tutto questo, queste commemorazioni, queste parole, inevitabilmente prosaiche, che si scontrano con l’autenticità della sua poesia. Sento il bisogno di marcare le differenze, di riportare in vista le cicatrici, di mostrare le ferite, affinché tutti credano.

Donna disobbediente, ironicamente prendeva per il culo – quando ne aveva l’occasione, come nelle sue ultime spassose apparizioni televisive – gli stessi benpensanti che oggi si accalcano per commentare, per farsi vedere attorno al suo cadavere. Gli stessi rappresentanti di quella società che non l’ha mai accettata e rispettata veramente, lei e la sua poesia. Di quella società che pensava fosse meglio rinchiuderla e che, anche quando ormai era da tutti riconosciuta come poetessa e donna di lettere, continuava a considerarla una «matta», da non prendere troppo sul serio, soprattutto quando denunciava e diceva qualcosa di scomodo contro il potere burocratico e violento che più di ogni altra cosa la infastidiva, perché intralciava la sua poesia.

Alda Merini voleva diventare francescana – così diceva. Come Francesco d’Assisi sentiva il bisogno di spogliarsi sulla pubblica piazza, proprio di fronte a quei benpensanti che oggi dicono di ammirarla ma che non potranno mai comprendere la sua semplice e disarmante autenticità, quella che chiamano – e continuano a farlo – la sua pazzia. Senza capire, se questo conta davvero qualcosa, che follia è il nome dell’amore.

Edward Hopper, Sera d'estate (1947)

In un’intervista rilasciata alla televisione un anno fa la Merini dimostra tutta la sua autenticità – non so come altro chiamarla – le sue idiosincrasie, la sua personalità al di fuori da ogni snobismo radical chic, di ogni falso pudore peloso e benpensante, piccolo borghese. Mi piace ricordarla proprio in questi momenti, che dimostrano la sua veracità: «I giovani non li posso più scopare alla mia età… – ebbe a dire – Non mi scopa più nessuno!». E ancora: «Non so perché mi leggono… I miei lettori hanno il gusto dell’orrido. Voi fate fatica ad essere sani di mente: noi eravamo sani…».

La cosa più odiosa: le domande alla Merini sul manicomio. Piene di retorica e stomachevoli, sempre. Perché in una società dove non è ammesso il silenzio, non si accetta che di certi orrori non si possa parlare, come se si stesse chiacchierando dal parrucchiere o a Porta a Porta. Le risposte della Merini allora erano ironicamente fuori da ogni retorica, rispondeva come poteva e si limitava a dire: «Non tutti hanno retto lo spavento del manicomio. Io ci sono passata attraverso…».

Non so quanti abbiano veramente letto le poesie di Merini. Quanti abbiano davvero capito la sua poesia, con tutte le sue contraddizioni. So che Merini ha pagato la sua poesia con la vita e che cercheranno di tirarla da una parte o dall’altra. Ma so anche che resterà per sempre una «donna disobbediente», proprio perché poeta.

Requiem

ed ecco per te il mio requiem senza parole
con la bocca piena di erba e di felci azzurre
ecco il mio requiem della corifera che non
è creduta, della Cassandra che è vilipesa
magnifico esempio di segreta impresa
tu solo mi esalti e mi incanti perché
sei colui che non si può prendere ed essendo
fermo sulle rive del Gange in perenne
contemplazione aspettando che passi la pagliuzza
d’oro della conoscenza e dell’era eterna
tu che sei scaltro più della pietra e più
duro del sasso e che pensi perennemente
pensi alle ere pitagoriche e che veneri
Socrate e che infine sei Paolo di Tarso
atterrato dalla fede infinita ebbene io
ti disarcionerò dal tuo cavallo d’amore
filiale desiderante farò di te un martire
dell’ombra perché il segreto della tua
tristezza è l’ordine e il disordine delle
cose create perché io non sono dissimile a
tua madre a Cerere eterna e infine sono
anche la primavera che si mette sugli alberi
insieme alla rugiada e tu ami la rosa della
vergogna che mi trovo appuntata sul petto
e tu le esalti e le scorri con le tue dita
feconde. Potessi così capire il mio desiderio
che si apre il fiore della carne infinitamente bella
e trovarvi dentro il seme insaziabile
dell’amore e dell’ebbrezza potessi sprezzante te
spargere sangue insieme disseminare
la discordia degli abissi perché sei
il murmure pieno e il precipizio delle
albe e perché infine tu conosci il senso
della bellezza. Io aborro pensare ma
aborro anche muovermi nel caos infinito.

(Alda Merini, da Come polvere o vento)

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sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»