martedì 14 settembre 2010

Licenziateli tutti. Una proposta per la scuola

Novantamila insegnanti precari non saranno più assunti a causa dei tagli sulla scuola decisi dal Governo. È solo il primo effetto di quella che hanno chiamato "riforma"; anche se è chiaro agli occhi di tutti che di altro si tratta: della progressiva diminuzione di investimenti statali nell'istruzione pubblica. Apparirebbe uno sfascio, ma il vero problema di questo Governo è un altro: la moderatezza, il sedicente riformismo.


Di insegnanti, il Governo, non dovrebbe licenziarne soltanto una parte, la più debole: i precari. Dovrebbe licenziarli tutti, nessuno escluso. Nascondersi dietro il velo del riformismo è una colpa imperdonabile, un'ipocrisia insostenibile. Se dicessero "distruggiamo la scuola", forse incasserebbero il mio appoggio, ma dato che sostengono di volerla riformare...

La Scuola andrebbe abolita, al più presto. O meglio: la società andrebbe descolarizzata. Ritardare ancora questo processo (che si sta compiendo, nonostante tutto, per inerzia, per autodistruzione) è una follia: significherebbe allungare l'agonia di un malato che già da troppo tempo emana fetore di morte; un puzzo insostenibile e ripugnante.

Abolire l'istituzione scolastica è l'unico passo possibile per liberarsi di un carrozzone che, tenendoci legati come delle bestie al giogo dell'istituzione, non ci consente più di correre spensierati, di saltare nei campi, di restare sorpresi. Perché soltanto restando sorpresi ci si può salvare. Soltanto una leggera curiosità per la conoscenza può produrre una "civiltà perfezionata". Non la scuola.

Dell'enorme perversione che è il sistema scolastico (così come noi lo conosciamo, ché non è minimamente paragonabile al Liceo o all'Accademia o alle università medievali) ha parlato mirabilmente un uomo: Ivan Illich. Rileggere oggi il suo libro Deschooling Society (1971) non potrebbe che rinfrescare e liberare la mente di molti difensori (sedicenti di sinistra) di questo sistema iniquo; fagocitati dai luoghi comuni, sono diventati essi stessi un luogo comune, un corpo comune, una mente comune. E hanno abdicato alla libertà (anche grazie alla scuola, ché loro sì che ci sono andati!).

Ivan Illich (1926-2002),
storico e critico della modernità.


Scriveva Illich:

"Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arrampicarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l’uguaglianza, ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato, che l’istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto, e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso".

La scuola è l'amplificatore delle differenze sociali, del privilegio di chi ha i mezzi per studiare (e sto parlando della scuola pubblica) e di chi non li ha. Perché un bambino povero, anche se in classe con un compagno ricco, non avrà mai le stesse possibilità del suo vicino: mai! Si aumenterà soltanto il suo senso di frustrazione, mentre se fosse rimasto fuori dal "diplomificio" non si sarebbe mai neppure posto il problema: avrebbe continuato la sua vita, realizzando nel migliore dei modi le possibilità di cui era dotato sin dall'inizio. Non avrebbe rincorso riconoscimenti sociali per lui inarrivabili.

Questa è la cruda realtà della scuola. I dati sull'"abbandono scolastico" lo dimostrano. Così come lo conferma la progressiva involuzione qualitativa delle università, dovuta all'insostenibile aumento del numero di studenti affamati di un inutile pezzo di carta. Quando tutti gli spazzini saranno laureati (e già lo sono) potremo affidare loro la ricerca scientifica sulla ecologia. E lo stesso vale per tutti gli altri che si ostinano ad ingolfare un luogo che dovrebbe essere consacrato allo studio e non alla carta pergamena di cui sono fatti i diplomi.

Avremo il macellaio laureato in zoologia veterinaria, il panetterie in scienze dell'alimentazione, il benzinaio in ingegneria petrolchimica, ecc. (E questo elenco ha il merito di riconoscere a ciascuno una propria specializzazione; sappiano che la realtà è ben diversa: che spesso un laureato in lettere finisce in un call center, uno in scienze politiche a vendere contratti della società di elettricità casa per casa, una laureata in chimica a fare la commessa in un negozio di mutande e reggiseni. E ci sarà poi il povero ignorante appassionato in mutande e reggiseni che non potrà fare il commesso in un negozio di intimo perché prima di lui, in graduatoria, ci sarà il laureato!).

Questa è la situazione paradossale che si sta venendo a creare (che si è già creata). L'eccessiva specializzazione rappresenta il rischio maggiore per la felicità delle persone, che si trovano la vita complicata da questioni che una volta li avrebbero riguardati direttamente, ma che oggi sono materia per gli "esperti" (che, in realtà, non hanno mai esperito alcunché). Assistiamo così ad una espropriazione progressiva della libertà di scelta delle persone, perché le scelte toccano a chi se ne intende, agli esperti iperscolarizzati.

L'aula di don Lorenzo Milani a Barbiana

"Il mero possesso di titoli di studio – denunciava Ivan Illich – per accedere a qualcosa è una discriminazione e va abolita. La discriminazione dovrebbe avvenire soltanto in base alle capacità e non al pedigree scolastico". Già, vaglielo a spiegare. Ci troviamo ormai in una situazione in cui una sorta di patto, di dogma sociale, accetta e crede ingenuamente che nelle scuole si impari davvero qualcosa. Che l'attestato rilasciato al termine del percorso scolastico attesti davvero qualcosa, l'apprendimento di qualcosa. Ma così pare non essere. E credo che ciascuno di noi, sottoponendosi a un'analisi sinceramente spietata, non avrebbe nessuna difficoltà a dimostrare esattamente il contrario, e ad affermare: tutte le cose più importanti che ho conosciuto, posso dirlo con certezza, le ho apprese fuori dalla scuola.

La descolarizzazione di cui parlava Illich non è una distruzione della scuola fine a se stessa, quanto piuttosto la "premessa di qualsiasi movimento per la liberazione dell'uomo"; una proposta. E di proposte Illich ne avanza di concretissime: se volete conoscerle leggete il libro (qui). Ché non ci sarà - e non sarò certo io - nessun esperto che vi sintetizzerà le mirabili cose a cui Illich restituisce chiarezza e comprensione. Buona lettura.

giovedì 29 luglio 2010

Guerra lontana, parole lontanissime

Si continua a morire in Afghanistan. Ciononostante sembra che non se ne parli abbastanza. La calura di questi giorni d'estate; il clima balneare e il silenzioso abbandono delle città certo non aiutano a guardare alla tragedia: tragedia annunciata e vissuta con ben più terrore dagli Usa, con i loro 1200 morti. Si fatica a sentire – lontano – le raffiche dei mitra, le esplosioni delle bombe, i blindati che saltano. Si fa fatica e non si ammette, fuggendo, l'immensità di questa guerra. Anche se, timidamente, già da qualche tempo i telegiornali non fanno più mistero che di questo effettivamente si tratta: di guerra. Ché prima la parola “guerra” era bandita, assolutamente.


Eppure, nonostante si cerchi in tutti i modi di volgere altrove lo sguardo, le rassicurazioni di militareschi ministri della Difesa appaiono ormai per quello che sono: la recitazione di una parte, di una dolente pantomima necessaria e mai richiesta. Una parodia del dolore, in nome di chissà quali valori.

La gente se ne accorta. E forse è per questa ragione che preferisce guardare altrove, distrarsi. Gli unici che sembrano non essersene accorti sono loro: i combattenti, chi su quelle lande desolate perde, e fa perdere, la vita. I soldati che hanno di fronte la guerra e che, nonostante questa evidenza che gli si apre di fronte, a pochi metri, ogni giorno continuano a chiamarla “missione di pace”; cosa che neanche i politicanti nostrani fanno più. E fa male, quasi più delle morti, che restano e sono lontane, sentire dalla voce di questi soldati chiamare il nemico “insurgents”. (Termine inglese che sta per “insorto”. Ma che appare, ancora una volta, la parte di un copione scritto da altri; come a dire: le parole della guerra non sono nostre, sono di chi ci ha mandato qui). Questo pudore che spinge a non chiamare il nemico con il suo vero nome, attraverso una serie di eufemismi rigorosamente americani, fa parte del grande nascondimento che viene riservato alla guerra afghana. Forse avremmo bisogno di un nemico che sia sentito in quanto tale, non di un nemico nascosto, lontano, impercettibile. Ché certo un nemico avvertito (al di là del fatto che è chiarissimo chi in quella situazione è l'occupante) sarebbe troppo coinvolgente. La gente potrebbe dire: siamo in guerra contro “il nostro” nemico. Ma così, un “insurgents”, che volete che sia! È solo un “ribelle”. Cose da specialisti, insomma.

E ormai anche i funerali dei soldati sono sempre più nascosti. Non ci toccano più. Le vedove stesse, che appaiono in televisione recitando – anche loro – una parte che qualcuno gli ha scritto, mostrano che i loro mariti erano soldati, lo erano innanzitutto, professionalmente. Morire? Fa parte del mestiere, è uno dei rischi possibili: niente paura. Come se in tutto questo si cercasse di giustificare una morte. Quando la morte ormai non è più umana, ma di Stato. E dire che basterebbe il silenzio, come segno di pietà: un urlo sarebbe, il silenzio. Un grido lanciato lontano dalle telecamere, che – forse – potrebbe far sorgere una domanda: perché?

mercoledì 7 luglio 2010

Ricostruire l'etica?

Ci si chiede: è possibile una etica globale? A questa domanda si potrebbe rispondere: è possibile nella misura in cui l'etica sappia accogliere – attraverso un duro lavoro, un parto – tutte le differenze. Come in una costruzione, dove ognuno ha la possibilità di apportare, di aggiungere il proprio mattoncino. Nulla da obbiettare alla risposta, che condivido. Ma il dubbio, più che nella risposta, mi coglie nella domanda, e non solo nella sua formulazione ma anche nella possibilità stessa di pensare un'etica che sia “globale”.

Una parete della casa di Alda Merini

Parlare di globalità non significa inevitabilmente ritornare a riconoscere la necessità di una risistematizzazione? Di una nuova ennesima costruzione che raccolga in un unico sistema teorico una etica, concepita – in questa forma – come un insieme normativo, morale, comportamentale che valga da Est a Ovest, da Nord a Sud? Mi chiedo allora: occorre giungere ancora una volta ad una sintesi? E le macerie dei grandi sistemi, delle grandi narrazioni, sulle quali camminiamo, allora, a cosa sono servite? A cosa servono? La metafora delle rovine, di ciò che era e che ora non è più (ne resta solo la memoria, il resto, i resti) vale nella misura in cui si ha il coraggio di riconoscere la debolezza, la nudità, la spoliazione: prima di tutto un atteggiamento (etico?); un modo di guardare al crollo delle vecchie narrazioni; l'impossibilità di giungere (con identiche formulazioni) ad una ricostruzione dell'etica.

L'etica che parte dalla casa (oikos) si muove nelle stanze, tra gli oggetti della vita quotidiana, e attraversa ogni momento della giornata, dal risveglio al riposo. E non si può prescindere da questi oggetti, dalle cose, che devono riacquisire ai nostri occhi il loro essere cosa (la loro “cosalità”). Come quando, conclusa una nevicata, d'inverno, si guarda fuori dalla finestra: le cose appaiono ricoperte da un sottile strato di neve che le restituisce alla loro forma, distraendoci per un attimo dalla loro funzione, dalla loro utilità, dal loro essere strumento. Una visione non utilitaristica delle cose, forse più estetica, più vicina alla poesia e più lontana dalla tecnica.

La tecnica. É possibile una etica della tecnica? Non dico della scienza, ma della tecnica che, inevitabilmente, pone il problema della dimensione. Ché il sistema tecnico si basa sulla ripetibilità estensiva dei propri principi; si muove all'interno di paradigmi definiti che vengono assunti per universali. A cosa servirebbe allora la tecnica, se uno strumento (e il principio che lo regola) non fosse utilizzabile e verificabile in ogni parte del mondo, indistintamente? La tecnica è globale (lo pretende). E lo si vede con la “globalizzazione”. Per questa ragione una etica applicata alla tecnica (se ciò fosse possibile) non potrebbe che essere globale. Estesa in ogni luogo, al di là delle differenze. Ma questa non sarebbe ancora una volta una formulazione assolutistica?

Più una etica è globale più essa è “grande”, più si estende per confini ampi e lontani; più è lontana dalla casa (che è piccola, proporzionata alla vita). Ci si allontana quindi dalla finitezza di un'autobiografia, di una vita vissuta e intessuta di storia; che non può che essere personale; che non può che essere circoscritta a un certo limitato numero di conoscenze, di rapporti, di amicizie, di amori. I tentativi di vita, gli atteggiamenti sommessi che animano la nostra esistenza, trovano spazio negli interstizi lasciati liberi tra le vite delle persone, nei loro rapporti. E però non bisogna abbandonarsi alla tentazione di riempire questi spazi con nuove costruzioni, nuovi edifici monumentali che rischiano di farci dimenticare che su quel campo sterrato c'erano solo macerie, e più sotto ancora qualche fossile. Altrimenti nessuno si ricorderà della storia, della materia di cui sono fatte le biografie delle persone.

Vicino a casa mia c'era uno stadio: è stato demolito ed ora è un campo di erbacce. D'estate i bambini, aprendo furtivamente i cancelli, vanno a giocarvi a calcio. È un gesto di profonda libertà, di gioia, di scoperta; di appropriazione di un luogo vuoto che nessuno usa, privo di vita; di anarchia. E però c'è chi su quel campo vorrebbe tornare a costruire: case, palazzi, un nuovo e più moderno impianto sportivo. I bambini andranno a giocare altrove, ma quello spazio sarà riempito, sottratto alla libertà di occuparlo, alla possibilità di viverlo; fino alla prossima distruzione, fino alle prossime macerie.

È per questo che l'idea di una ricostruzione monumentale, globale, dell'etica non mi entusiasma e non mi convince; e sinceramente non ne sento la necessità. Preferisco, d'estate, scavalcare i cancelli di quel campo abbandonato e andare a vedere – ancora – i ragazzi del quartiere giocare.

martedì 30 marzo 2010

Chi ha votato Cota a l'è davvero un cutu?

Parlare di parole o parlare di cose? Un dilemma pirandelliano, che torna ad interrogarci nel momento in cui tutti sembrano parlare d’altro. Ché forse qualcuno cerca di sfuggire alla realtà delle cose, pur di non riconoscere il proprio fallimento. Ma davvero chi in Piemonte ha votato Cota è un cutu? (Cutu: da Cottolengo. Come ricorda Calvino: «Nel crudele gergo popolare … epiteto derisorio per dire deficiente, idiota, anche abbreviato, secondo l’uso torinese, alle sue prime sillabe: cutu»).

Giovanni Francesco Caroto, Ritratto di bambino con disegno

E poi, anche se qualcuno effettivamente lo fosse, in democrazia rappresentativa – noi che si è buoni – non si deve rispettare il volere dell’elettore, anche se questi è cutu? (Torni il lettore a leggere La giornata d’uno scrutatore). Drammaticamente, la questione in questo caso sembra essere diversa – anche se il dubbio può venire. L’elettore non sembra essere cutu, e del resto sarebbe troppo facile liquidare la faccenda con questa risposta.

Ci sono le parole, e ci sono le cose. Le parole di chi guarda dall’alto in basso, con disprezzo borghese, quel popolo (che tanto dice di amare: ché sempre di parole si tratta) che un tempo era punto di riferimento fondamentale per la «sinistra». Ora però quel popolo vota Lega. E non c’è da stupirsi se un tempo, costoro, questi «verdani», altri non erano che «rossani»: e votavano convintamente per quella falce e martello che assicurava loro rappresentanza e azione sindacale sul territorio. E dato che di parole stiamo parlando: come non accorgersi che le parole sono cambiate? Che quella «sinistra» non esiste più e ormai garantisce rappresentanza più alla borghesia da tinello (e anche da salotto) che all’operaio del cuneese o del biellese o dell’alessandrino? Senza contare i veri interlocutori di codesta «sinistra al potere»: costruttori e banchieri in primis.

Chi allora è alla ricerca di un capo espiatorio forse è perché ha un notturno senso di colpa: non aver mai sceso le scale del proprio appartamento alla Crocetta; non essere mai uscito dal locale alla moda di San Salvario per stare con le gente, col popolo (che tanto piace a parole). Se, infatti, questi borghesucci radical chic (ma anche radical nerd, ecc) fossero scesi per le strade di Barriera di Milano o delle Vallette, oppure avessero spinto i loro piedi fuori dalla città (che tutto attutisce) e si fossero fatti una bella gita in campagna (a Cuneo, a Biella, a Sampeyre…) avrebbero visto le cose; le avrebbero incontrate le cose. E non staremmo qui a parlare di parole.

Poi ci sono le cose: e questi sono i fatti. Il paese reale non è città, non è borghesia impiegatizia, non è movida. Il paese reale è piccoli imprenditori, operai di provincia (piccole fabbrichette), nonne che accudiscono i propri nipoti (tanti nonni: vecchi bisognosi di assistenza sanitaria!). E poi c’è la paura, la paura del negro, dell’altro, del diverso – e questo anche in città. Allora bisogna chiedersi (ma anche queste forse sono solo parole): Chi risponde a questa paura?

Ci sono poi altre cose: quelle che non sono state fatte (e che forse dovrebbero importare più ai «sinistri» che ai «leghisti»). Un esempio: Cota, nel programma elettorale, scrive: «Piena riconferma della ‘Legge Botta’ (LR 41/1997; articolo 17 della ‘56’) per l’approvazione da parte dei soli Comuni delle varianti minori ai loro PRGC». (Il lettore mi perdonerà l’esempio, forse troppo specialistico, ma del resto di questo mi occupo e di questo so parlare). In sostanza Cota manterrà lo status quo (già piuttosto degradato) in materia di urbanistica, ogni comune sarà libero di farsi la propria variantina di Piano regolatore a seconda delle esigenze del momento, con lo scopo di rimpinguare le casse comunali svendendo il territorio. Cota dice: «State tranquilli vi lasceremo fare!». Ma la «sinistra», in questi cinque anni di governo, cosa ha fatto a proposito? Ha forse abrogato l’articolo 17 voluto dall’assessore Botta, ripristinando nel suo impianto originario la «Legge Astengo» che regola l’uso del suolo? È riuscita a far approvare la nuova legge urbanistica regionale (contro la quale piccoli comuni, Confindustria, costruttori, immobiliaristi, ecc, ecc, ecc, hanno fatto ostruzionismo)? Niente di tutto questo. Dunque, di fatto, anch’essa ha mantenuto lo status quo. E i motivi li lascio al lettore.

sabato 27 febbraio 2010

Del mondo antico e del mondo futuro


Poesia per Marilyn

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,

tu sorellina più piccola,
quella bellezza l'avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

Il mondo te l'ha insegnata,
Cosi la tua bellezza divenne sua.

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L'obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Cosi
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d'oro.

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre cosi facilmente nudo.

E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo...
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata,
e cosi la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d'oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.

Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: "E' possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?"
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.

(P.P. Pasolini, dal film La Rabbia, 1963)

martedì 9 febbraio 2010

Contro la velocità

Si fa un gran parlare di alta velocità, soprattutto dopo che la questione – complici le elezioni regionali – è tornata alla ribalta in Val di Susa. Addirittura si inventano, da un giorno all’altro, «movimenti» a favore della ferrovia ad alta velocità. In contrapposizione ai No Tav che da anni lottano per difendere il loro territorio, lo hanno chiamato «Si Tav», senza accento, ché a loro l’ortografia gli fa un baffo.

Il manifesto dei Si Tav (Sic!)

A mancare però non sono soltanto gli accenti (che pure sarebbero importanti, dato che ormai gli slogan sembrano gli unici strumenti di riflessione politica e sociale) quanto piuttosto una valutazione profonda, nel merito, sulla «velocità». La velocità sembrerebbe cosa naturale – quantomeno necessaria – e infatti il problema non sembra porsi. Tanto che ogni discorso sulle «prospettive di sviluppo», comprese le analisi più o meno sensate sull’opportunità economico-finanziaria di realizzare oppure no il Tav, è intriso di luoghi comuni, per definizione insindacabili perché propri della «maggioranza».

Può sembrare un problema filosofico, e forse lo è, ma si sente forte la mancanza di un’analisi delle categorie che diamo per scontate (in questo caso la «velocità»). Un grande economista austriaco Leopold Kohr (1909-1994), nei suoi studi sullo sviluppo urbano di Portorico (isola nella quale si trovò a insegnare dal 1955 al 1973, dopo la fuga dall’Austria nazista), definì la velocità la «più profonda causa della moderna congestione urbana»[1].

Kohr si definiva un «anarchico filosofico» [2] e, sebbene in Italia sia quasi del tutto ignorato, è stato il maestro e l’ispiratore diretto di importanti studiosi, come Ivan Illich e Ernst F. Schumacher. Nel suo libro, La città a dimensione umana (1976), che raccoglie una serie di articoli e saggi sull’urbanistica a partire dalla realtà portoricana, ad un certo punto affronta nello specifico il tema della «velocità» [3].



La velocità: causa di tutti i mali


L’economista austriaco parte dall’osservazione che del traffico non esiste soltanto una quantità, ma anche una qualità – sempre elusa nei calcoli ufficiali e tale per cui la «velocità» si trasforma nella «più profonda causa della congestione urbana». Occorre «intendere – spiega Kohr – anche la frequenza degli spostamenti; non solo il tragitto fino alla fabbrica a cinquanta miglia all’ora, ma anche il fatto che questa distanza venga coperta due o quattro volte al giorno. Non solo la quantità, ma la qualità del traffico» [4].

Questa constatazione porta al distinguo tra popolazione numerica e popolazione effettiva. Perché «la velocità ha sulla gente lo stesso impatto che ha sulle particelle della materia. Aumenta, cioè, la loro massa effettiva. Fa sì che una folla che si sposta rapidamente risulti, agli effetti pratici, più grande di un’altra che magari è più numerosa, ma si muove più lentamente» [5].

Kohr intende far comprendere appieno il ragionamento e le logiche, apparentemente nascoste, che regolano gli agglomerati sociali, politici, urbani, ecc. E a partire da queste considerazioni, egli formulò la sua «teoria delle dimensioni», dove la «proporzionalità» è un elemento fondamentale dell’analisi sociale.

«L’elemento che depriva le città del loro ossigeno, sia dal punto di vista letterale sia da quello figurato – spiega meglio Kohr – non è il numero delle persone ma la loro velocità. Non c’è alcun problema di sovrappopolazione a New York, Londra o San Juan all’una di notte, quando la velocità è praticamente zero. Comincia a sorgere alle sei o alle sette del mattino, aumenta durante la prima ora di punta, regredisce, aumenta di nuovo, regredisce e, finalmente, svanisce ancora una volta quando la città si prepara per la notte» [6]. E conclude secco: «È quindi la velocità, e non il fatto che vi siano troppe persone, la radice di nostri peggiori problemi urbani». E individua una possibile soluzione: provvedimenti che portino alla «diminuzione della velocità alla quale la gente si muove» [7].

Giacomo Balla, Velocità astratta (1913)

Ma come si fa a ridurre la velocità? «I nostri moderni pianificatori del traffico devono ancora convincersi – scriveva Kohr negli anni ’70 – che ogni nuovo svincolo, superstrada o autostrada urbana che costruiscono (allora i treni ad alta velocità non esistevano, ndr), aumenta la pressione che essi vogliono diminuire, intensificando l’effetto della velocità (a sua volta causa dell’aumento di volume), la cui continua accelerazione non è affatto impedita bensì facilitata dall’estensione spaziale dei loro stessi progetti» [8].

Che fare allora? Imporre dei limiti non è una soluzione, «perché tendono a seguire la velocità in aumento», aumentano di pari passo con il progresso tecnico che consente la fabbricazione di automobili più sicure e comode. Nemmeno si può vietare la costruzione di automobili («almeno finché gli automobilisti avranno diritto di voto»). Quale soluzione allora per affrontare il problema alla radice? «Ridurre non la velocità del movimento, o i mezzi con cui questo avviene, ma i motivi stessi del movimento» [9]. E qui sta la proposta autenticamente libertaria e «rivoluzionaria» (più attuale che mai nella sua inattualità) di Kohr, frutto di una profonda critica dello sviluppo in chiave economico-politica, il cui esempio maggiore è rappresentato dalla sua sostanziosa e allo stesso tempo agile e leggera opera The Breakdown of Nations (pubblicata in Italia nel 1960, e mai più ristampata, dalle olivettiane Edizioni di Comunità).


Perché il signor Rossi corre tanto?


Kohr compie la semplice operazione, frutto di quella ragionevolezza che può apparire al contempo utopia e discorso da bar – ragion per cui non è mai presa in considerazione seriamente dalla partitocrazia e dai poteri economici – di porre una domanda: «Perché il signor Rossi corre tanto?». Già, perché? – ecco la domanda che non «bisogna» porsi. La domanda che accomuna i filosofi ai bambini, quando giunge l’«età dei perché», che tanto «rompe» il mondo degli adulti.

«Che cosa spinge la gente a muoversi con una velocità incrementante il volume e tale da trasformare, quasi ovunque, popolazioni di dimensioni normali in sovrappopolazioni?» [10]. Il trasferimento in zone residenziali periferiche, lontano dal lavoro ha creato una difficoltà in passato inesistente, una «distanza tecnologica», una distanza artificiale – dice Kohr – dovuta non ad esigenze economiche ma al progresso tecnologico. E così si è troppo lontani dal mercato dove fare la spesa, dai campi di calcio dove giocare, dalla scuola, dalle strutture ricreative, dalle osterie, ecc. Questo ha reso necessario l’uso dell’auto, per andare lontano sempre più velocemente. «Paradossalmente ci vuole più tempo ora per fare qualunque cosa in macchina, di quanto ce ne volesse prima a piedi», chiosa Kohr.

«Dobbiamo smetterla di incoraggiare la ‘deportazione statistica’» [11], attraverso la costruzione di strade super veloci e altre infrastrutture. Occorre «concentrare il nostro spazio vitale, contrarre le nostre città». Un ritorno, dalle periferie agli «spazi conviviali», dai suburbi alle città «a misura di pedone», all’interno delle quali si possono concentrare tutte le funzioni e le attività umane, dal lavoro al divertimento, dalla partecipazione civica allo studio.

Sarebbe facile interpretare l’analisi di Kohr, e di chi come lui dice «no velocità», come una rivendicazione nostalgica che guarda al medioevo – e molti non mancano di farlo continuando ad affermare ancora oggi, a 40 anni di distanza da Kohr, da Illich, da Ellul, da Pasolini, l’avanzata dello sviluppo – che in realtà è solo «sviluppismo». Quello stesso progresso tecnologico ormai inarrestabile contro il quale ogni voce sembra rimanere inascoltata e priva di «ragionevolezza». Perché la «ragionevolezza», quella «vera», abita le menti di coloro i quali – guarda caso – vivono in quella porzione di mondo ricco e «già sviluppato» che volge le spalle a quei paesi perennemente «in via di sviluppo». Minoranza di una minoranza, che si crede maggioranza.
G.G.

__________

[1] L. Kohr, La città a dimensione umana. Pianificazione, bellezza, convivialità nella città policentrica, Como, 1992, pag. 46 (ed. orig. The City of Man: The Duke of Buen Consejo, Editorial de la Universidad de Puerto Rico, University of Puerto Rico, 1976).
[2] Ad un certo punto scrive Kohr: «Se i gusti del pubblico o le norme urbanistiche sono contrari al buon senso, sacrifichiamo non il buon senso ma norme e gusti del pubblico. Questo non significa che le norme vadano violate. Da anarchico, seppure soltanto in senso filosofico, io sono in favore della loro abolizione. Tutto ciò che un sindacato deve fare per mandare in malora una società o una ditta, è di ‘applicare le norme’. Perciò non citate norme o piani regolatori quando si tratta di restaurare case o città. Una pianificazione dovrebbe fare le regole, non ubbidirvi». Ivi, p. 98.
[3] Il saggio in questione si intitola Popolazione numerica contro popolazione effettiva, ivi, pagg. 46-54.
[4] Ivi, p. 47.
[5] Ibidem.
[6] L. Kohr, op. cit., p. 48.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 49.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Kohr utilizza il termine «deportazione statistica perché, sebbene le persone coinvolte nell’esodo vi partecipino volontariamente, non c’è alcuna libertà di scelte per quanto riguarda la dimensione collettiva della quota. A una data velocità, una qualunque società può mantenere solo un certo numero di persone. Se la insostenibile popolazione eccedente di Portorico, prodotta dalla velocità, non partisse per New York, la morte per fame deporterebbe nell’aldilà la stessa massa statistica». Ivi, nota a pag. 54


domenica 3 gennaio 2010

C'era una volta un paese meraviglioso

Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata: non dico i suoi valori - che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire - ma le apparenze parevano dotate del dono dell'eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe mai cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c'era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità che finivano col costruire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo.

Mimmo Jodice, Pompei, 1982

È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perchè cosa aspettavano, quei ragazzi un po' rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l'adolescenza - malgrado qualche eccezione ch'era una meraviglioza colpa - ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.

Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l'onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.

Immagine tratta da L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi (1978)

Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa - e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l'isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all'adulazione - è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere - sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre - non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.

(P.P.P., dalla recensione a Un po’ di febbre di Sandro Penna)


Gabriele Basilico, Beirut

Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.

Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne ed ossa.

(P.P.P., Gennariello, Lettere luterane, pagg. 21 e 28)

sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»