domenica 8 novembre 2009

Montaigne: l'amico e le grottesche

«Passò dal suo ufficio, aprì i cassetti della scrivania: prese delle lettere, il piccolo Montaigne di Gide che sapeva quasi a memoria, un pacchetto di sigarette». Con queste parole, tratte da Il cavaliere e la morte, Leonardo Sciascia ha voluto rendere omaggio ad un grande uomo: Michel Eyquem de Montaigne. Di lui Nietzsche ebbe a dire: «Che un tale uomo abbia scritto ha accresciuto il nostro piacere di vivere».

Insieme a Shakespeare, Montaigne è tra quei grandi scrittori che hanno il dono speciale di restare sempre «moderni», di non invecchiare mai e di essere comunque sempre attuali, nonostante la loro «inattualità». Così è facile sentire Montaigne come nostro «contemporaneo». Egli, col suo scetticismo (Que sais-je?, era il suo motto) ha «saggiato» le profondità dell’animo umano: «ha criticato l’autorità intellettuale prima dell’Illuminismo, fu un osservatore distaccato della sessualità umana prima della psicoanalisi, e uno studioso imparziale delle altre civiltà prima della nascita dell’antropologia sociale», scrive Peter Burke.

Montaigne possiede quella peculiarità propria degli spiriti autentici che lo rende inclassificabile nelle comuni categorie e, al contempo, assimilabile in tutte. L’autenticità è sempre un rischio: il rischio del fraintendimento. E Montaigne è stato spesso frainteso, non capito e strumentalizzato.

Tuffarsi nei suoi Essais, con lo stesso scetticismo che li hanno in buona parte generati, può essere, oltre che una lettura piacevolissima che ha il raro dono del conforto, il modo migliore per avvicinarsi intimamente a quest’uomo del ‘500, alla sua umana grandezza, semplice e quotidiana, fuori da ogni accademismo (ma non per questo incolta, nonostante quanto egli affermasse di se stesso). Leggere i Saggi aiuta a comprendere il perché quest’uomo sia stato giustamente definito «precursore della modernità». Una modernità ancora priva di ogni corruzione e corrosione.

L'esemplare di Bordeaux, 1588

Un «pensatore debole» ante litteram che è diventato il suo libro, «un libro sincero». Un libro di cui, come scrisse nell’avvertenza al lettore, «io stesso sono la materia», per cui «non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque». Una buona premessa, che, al di là del gioco ironico, fa capire il personaggio: ironia e informalità, accompagnate dal rifiuto di ogni autorità.

I Saggi di Montaigne, genere da lui inventato, sono indagini sulla vita, che aprono all’illuminazione. Specie quelli dedicati alla pedagogia e alla morte, per cui è stato accostato a Illich, e Illich a lui. E come Ivan Illich (o viceversa), Montaigne era un uomo conviviale, profondamente amico dell’amicizia. E questa è una delle ragioni che più ce lo fanno amare.

Possiamo dire che egli scrisse la sua più grande opera spinto dall’amicizia. I Saggi, infatti, dovevano essere come un corollario al Discours sur la servitude volontaire del suo grande amico Étienne de la Boétie, morto nel 1563. Al centro dei Saggi doveva esservi il discorso di de la Boétie, «quadro fatto con tutto il suo talento», e attorno le «grottesche» di Montaigne. Opera che alla fine non fu inserita nei Saggi perché già pubblicata «a cattivo fine, da quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo, senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno». Per difendere la memoria dell’amico che, diceva, «da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente», Montaigne non pubblicò il Discorso, strumentalizzato a fini politici, e lo sostituì coi Ventinove sonetti di Étienne de la Boétie, espunti poi a loro volta dall’ultima edizione dei Saggi.

Grottesche, Uffizi
Considerando il procedimento seguito da un pittore in un’opera che possiedo, mi è venuta la voglia di imitarlo. Egli sceglie il posto più bello e il centro di ogni parete per collocarvi un quadro fatto con tutto il suo talento; e il vuoto tutt’intorno lo riempie di grotteschi, che sono pitture fantastiche le quali non hanno altro merito che la loro varietà e stranezza. Che cosa sono anche questi [Saggi], in verità, se non grotteschi e corpi mostruosi, messi insieme con membra diverse, senza una figura determinata, senz’altro ordine né legame né proporzione se non casuale? … Riesco a seguire il mio pittore fino a questo secondo punto, ma rimango indietro nell’altra parte, che è la migliore; infatti la mia presunzione non arriva fino a osar d’intraprendere un quadro ricco, rifinito e composto a regola d’arte. Ho pensato di prenderne uno a prestito da Étienne de la Boétie, che farà onore a tutto il resto di quest’opera.
(Dell’amicizia, I, XXVIII).

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sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»