sabato 5 dicembre 2009

Lo spirito anarchico di fronte al razzismo

Nel momento in cui gravi crisi attraversano la società, le religioni e la vita delle persone, occorre riflettere sulle scelte che, singoli e associazioni, debbono assumere per restare presenti e vigilanti nella storia. Personalmente penso che la cosa più importante, in questo momento storico, sia coltivare un pensiero critico e aperto perché non credo che le grandi sintesi ideologiche o religiosi possano oggi sospingere il mondo.

Alberto Savinio, Il fiume

Grandi temi come il razzismo o l’amata e sognata pace vanno affrontati con la capacità critica che affiora dalla nostra stessa quotidianità. Non c’è nessuna ideologia che sostiene le reali inquietudini, né i reali drammi umani; credo invece che nuove aspirazioni possano nascere dalle differenti discipline, soprattutto quelle che restano inquiete e sveglie: nessuno possiede, per fortuna, le ricette e nessuno è proprietario delle soluzioni.

Oggi è finito il tempo dell’infanzia, cioè di illusorie attese di salvezza. Oggi l’essere umano può essere creativo dal di dentro. So che nel mondo ci sono rigurgiti nostalgici che cercano di resuscitare fantasmi ideologici; per fortuna essi appaiono già vecchissimi e privi di ogni autorità, come avviene con i fantasmi dei film dell’orrore postmoderni, che debbono attrarre l’attenzione col sangue e con il sesso, ma non hanno più il fascino quasi mitologico che avevano quelli antichi in bianco e nero.

Tra i vari rigurgiti ce ne sono di pericolosissimi, come il razzismo, ma credo anche che ciascuno di noi, nonostante i nostri sodalizi ideali, sia un po’ razzista, mentre agli stupidi di turno nell’ambito politico di qualsiasi colore, tocca solo organizzarlo e istituzionalizzarlo. Il razzismo non è solo di gente ricca o borghese, è a volte, improvvisamente di tutti (pensiamo a Hitler che non era né ricco né borghese). Il razzismo è la meschinità e l’ottusità del nostro spirito; è il moralismo; sono le nostre taccagne logiche sulla giustizia e sulla solidarietà; la frustata visione che abbiamo della proprietà, tra benessere raggiunto e obbiettivi mancanti.

Lo spirito e l’anima non sono razzisti, ma come recuperare lo spirito, come recuperare l’anima? Quante cose dobbiamo ancora capire e di quante cose dobbiamo ancora parlare: sono sempre più convinta che lo spirito sia anarchico, come dice Giovanni nel capitolo terzo del suo vangelo e noi dobbiamo ancora trovare le sue impronte, lasciate qui e là. Siamo troppo abituati ai dualismi, alle dicotomie, alle gerarchie per non essere razzisti. Il dialogo comunque deve restare aperto e guai a chi lo chiude.

lunedì 30 novembre 2009

Oscar Wilde come filosofo

Centonove anni fa moriva a Parigi, all’età di 46 anni, Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde. Erano passati tre anni da quando Wilde era uscito dal carcere di Reading, dopo essere stato condannato a due anni di lavori forzati per sodomia. Il carcere lo sfinì e ne causò la morte. Ma fu anche il luogo dove poté scrivere due gemme preziose: De Profundis e La ballata del carcere di Reading.


Wilde viene ricordato dai più come il dandy, colui che più di tutti ha incarnato l’estetismo, un brillante drammaturgo dalla lingua tagliante. Certo egli è stato un fulgido esempio di come si possa utilizzare la leggerezza al fine di smascherare l’ipocrisia. C’è però una parte dell’opera dello scrittore irlandese che sfugge ai più, che è poco conosciuta e che – consciamente oppure no – è stata messa da parte. A prima vista potrebbe apparire poco interessante o marginale rispetto al resto della produzione letteraria wildiana – e forse in effetti lo è. Ma ad uno sguardo più attento consente di scoprire e dare maggiore complessità al pensiero di Wilde, fuori dagli schematismi cui siamo stati abituati negli ultimi tempi, dopo l'esplosione di una certa moda wildiana: film, aforismi che imperversano su magliette, tazze, calamite da frigorifero, ecc.

Si tratta di riscoprire Wilde come «filosofo». Definizione che potrebbe apparire indecorosa o minimizzante, sia per Wilde sia per coloro i quali si considerano filosofi a tutti gli effetti. Ma, di fatto, sia con le sue opere, sia con la sua vita («La vita imita l'arte più di quanto l'arte non imiti la vita») Wilde ha sempre pienamente dimostrato di essere a tutti gli effetti un «filosofo della vita».

Nel 1890, lo stesso anno in cui diede alle stampe The Picture of Dorian Gray, Wilde pubblicò un breve saggio intitolato The Soul of Man Under Socialism, ovvero L’anima dell’uomo sotto il socialismo. E, sempre nel 1980, pubblicò un altro piccolo saggio in forma di dialogo The Critic as Artist, poi accresciuto con l’aggiunta de La decadenza della menzogna e ripubblicato nel 1891 col titolo Intentions.

In queste opere, soprattutto ne L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Wilde dà una propria interpretazione filosofica e politica. Di solito si pensa a Wilde come ad uno scintillio fascinoso sostenuto dall’inconsistenza. Non si ha però ben in mente che dietro le sue contraddizioni e il gusto per l’ossimoro possa nascondersi un pensiero e una speculazione filosofica argomentata che sfocia addirittura in una filosofia politica.

Ne L’anima dell’uomo Wilde si dimostra a favore di un socialismo libertario (in questo senso va inteso il Socialism del titolo) imperniato su una filosofia dell’individualismo che, anche se in modo molto più leggero – e per certi versi più godibile – con esiti diversi fa pensare a Nietzsche e al suo Übermensch. Wilde in questo saggio si rivela quasi un Nietzsche di ambito inglese (li accomuna anche l’anno di morte). Non sappiamo se e quanto Wilde conoscesse direttamente l’opera del suo contemporaneo tedesco (sarebbe interessante scoprirlo!). Possiamo immaginare però che certe idee fossero nell’aria e che si respirassero da entrambe le sponde della Manica, anche se con sfumature e coloriture differenti.


Wilde propone un’utopia dove ognuno, in quanto individuo, può diventare l’artista di sé, per passare a vivere una vita bella e realizzata. Il socialismo diventa quindi un processo evolutivo verso l’individualismo, inteso come l’arte della costruzione di sé, del divenire ciò che si è (Volontà di potenza?).

Nel saggio vengono presi di mira il capitalismo borghese e il socialismo autoritario. Entrambi sistemi che impediscono la piena realizzazione di sé, in quanto individuo, e la realizzazione di quella filosofia dell’amore sostenuta più tardi da Carpenter con il suo Love’s Coming of Age (1896).

Il saggio di Wilde critica fortemente il pensiero politico dominante a quel tempo in Inghilterra. Va quindi letto contestualizzandone contenuti e polemiche. Ma si fa portatore di un messaggio di libertà che si spinge oltre al dibattito sull’attualità. E che si centra sulla realizzazione di sé:

Quel che dice Gesù è che l’uomo raggiunge la perfezione della vita non attraverso quel che ha, e nemmeno attraverso quel che fa, ma solo e interamente attraverso quel che è. Così il ricco giovane che va da Gesù ci viene rappresentato come un buon cittadino, che non ha infranto alcuna legge dello Stato, né alcun comandamento religioso. Uno rispettabile, nel senso ordinario di questa straordinaria parola. E Gesù gli dice: ‘devi rinunciare alla proprietà privata. Ti impedisce di realizzarti perfettamente. È un freno, è un fardello. La tua personalità non ne ha bisogno. È dentro di te, e non fuori di te che devi cercare quello che veramente sei, e quello che veramente vuoi.

E qui entra in gioco il discorso sull’arte, «la più intensa manifestazione d’individualismo che il mondo conosca». L’arte deve essere inutile e completamente libera dalla mercificazione e dal concetto di utile di matrice economia. Questo perché deve essere bella e tale da poter essere imitata dalla vita, che deve giungere ad una piena realizzazione («La vita imita l’arte» e non viceversa). Ed è in questo senso, l’alienazione dell’anima, che deve essere letto Il ritratto di Dorian Gray.

Qui diventano fondamentali per comprendere appieno questo discorso i due dialoghi Il critico come artista e La decadenza della menzogna.

L’arte di Wilde si è incarnate nella sua vita. Tanto che questa profonda mimesis l’ha portato fino alle estreme conseguenze, fino alla morte. Un tratto caratteristico di Wilde che è comune ad altri artisti e poeti della storia (solo per ricordarne uno, Pasolini…) che sono rimasti e rimarranno immortali.

Pére Lachaise: la tomba di Oscar Wilde ricoperta di baci.

Mai vidi un uomo triste guardare
con tanta ansia negli occhi
l'esigua tenda azzurra
che i prigionieri chiamano cielo,
e ogni nuvola vagante che passerà
libera e beata innanzi a noi
(La ballata del carcere di Reading, II stanza)

martedì 24 novembre 2009

Il potere è altrove

Il potere è altrove. Leonardo Sciascia se ne rese conto. Con la sua straordinaria lucidità, dopo l’esperienza di parlamentare e di consigliere comunale a Palermo, Sciascia comprese che le decisioni raramente vengono prese nelle assemblee elettive – anche e soprattutto in democrazia.


«Il potere è sempre altrove – disse in un intervista lo scrittore di Racalmuto – Non è nel consiglio comunale di Palermo, non è nel Parlamento della Repubblica, il potere è altrove». È una considerazione amara che ancor’oggi ha il suo valore ed è più attuale che mai.

Chi segue i lavori della assemblee elettive, giornalisti, ma anche consiglieri comunali e deputati – quei pochi dotati di un minimo di sana disillusione (e ne conosco alcuni) – si rende conto che il potere è altrove. Sa perfettamente che le decisioni, quelle importanti, quelle che interessano e influiscono davvero sulla vita delle persone, sono prese a monte, dalle lobby economico-politiche. Gruppi di pressione e di interesse completamente bipartisan, completamente bilaterali.

Ci si trova perciò davanti a giunte e/o maggioranze di colori politici opposti (a parole) che in città diverse votano gli stessi provvedimenti, le stesse delibere, gli stessi progetti. Basta guardare allo scempio che si sta facendo delle nostre città: un nuovo boom edilizio. Grattacieli, «grandi opere», consumo di suolo agricolo, abbattimento di edifici storici, pale eoliche criminali che deturpano il paesaggio…

Dal 2001 al 2007 c’è stato un nuovo boom edilizio. Nessuno ne parla. Eppure si conoscono i colpevoli; i loro nomi e le loro facce. Sono i fautori della modernità, del progresso: sempre loro! Qualcuno l’ha chiamato il «partito del cemento». Ma non è un partito, perché va oltre le parti.

Se con il primo boom edilizio ed economico, negli anni ’60, abbiamo assistito a una apocalisse culturale irrimediabile, alla scomparsa della civiltà contadina in Italia, alla «perdita dei sensi», oggi, con il nuovo «boom», assistiamo alla scomparsa delle reliquie di quella civiltà, dei ruderi, della memoria del nostro passato. E così, senza nemmeno accorgercene, abbiamo perso il «bel paese», per sempre.

Ci si affaccerà su Torino dalla collina e si vedranno grattacieli alti 180 metri: la scomparsa delle Alpi. Si volgerà lo sguardo verso Gibellina vecchia, il Cretto di Burri, estremo rudere del disastro, e si vedranno pale eoliche: la scomparsa del cielo.

Il potere è altrove. La politica – come diceva Sciascia – «è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici». La professionalizzazione della politica ha fatto sì che politici e amministratori fossero assoldati non più dai cittadini ma dai gruppi di potere.

Fioriscono comitati in tutto il Paese, contro la svendita del territorio, per il controllo delle scelte che irrompono nella vita dei cittadini. La gente si arrabbia, ma cosa può contro il potere che è altrove?

venerdì 20 novembre 2009

20 novembre 1989


Come Schagall, vorrei cogliere questa terra
dentro l'immobile occhio del bue.
Non un lento carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti;
e le stoppie bruciate, i radi alberi
che s'incidono come filigrane.
Un miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana è l'estate
che qui distese la sua calda nudità
squamosa di luce - e tanto diverso
l'annuncio dell'autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio è vorace sulle cose.
S'incrina, se il flauto di canna
tenta vena di suono: e una fonda paura dirama.
Gli antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell'occhio melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero agli dèi; gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

(Leonardo Sciascia, La Sicilia, il suo cuore, 1952)

domenica 8 novembre 2009

Montaigne: l'amico e le grottesche

«Passò dal suo ufficio, aprì i cassetti della scrivania: prese delle lettere, il piccolo Montaigne di Gide che sapeva quasi a memoria, un pacchetto di sigarette». Con queste parole, tratte da Il cavaliere e la morte, Leonardo Sciascia ha voluto rendere omaggio ad un grande uomo: Michel Eyquem de Montaigne. Di lui Nietzsche ebbe a dire: «Che un tale uomo abbia scritto ha accresciuto il nostro piacere di vivere».

Insieme a Shakespeare, Montaigne è tra quei grandi scrittori che hanno il dono speciale di restare sempre «moderni», di non invecchiare mai e di essere comunque sempre attuali, nonostante la loro «inattualità». Così è facile sentire Montaigne come nostro «contemporaneo». Egli, col suo scetticismo (Que sais-je?, era il suo motto) ha «saggiato» le profondità dell’animo umano: «ha criticato l’autorità intellettuale prima dell’Illuminismo, fu un osservatore distaccato della sessualità umana prima della psicoanalisi, e uno studioso imparziale delle altre civiltà prima della nascita dell’antropologia sociale», scrive Peter Burke.

Montaigne possiede quella peculiarità propria degli spiriti autentici che lo rende inclassificabile nelle comuni categorie e, al contempo, assimilabile in tutte. L’autenticità è sempre un rischio: il rischio del fraintendimento. E Montaigne è stato spesso frainteso, non capito e strumentalizzato.

Tuffarsi nei suoi Essais, con lo stesso scetticismo che li hanno in buona parte generati, può essere, oltre che una lettura piacevolissima che ha il raro dono del conforto, il modo migliore per avvicinarsi intimamente a quest’uomo del ‘500, alla sua umana grandezza, semplice e quotidiana, fuori da ogni accademismo (ma non per questo incolta, nonostante quanto egli affermasse di se stesso). Leggere i Saggi aiuta a comprendere il perché quest’uomo sia stato giustamente definito «precursore della modernità». Una modernità ancora priva di ogni corruzione e corrosione.

L'esemplare di Bordeaux, 1588

Un «pensatore debole» ante litteram che è diventato il suo libro, «un libro sincero». Un libro di cui, come scrisse nell’avvertenza al lettore, «io stesso sono la materia», per cui «non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque». Una buona premessa, che, al di là del gioco ironico, fa capire il personaggio: ironia e informalità, accompagnate dal rifiuto di ogni autorità.

I Saggi di Montaigne, genere da lui inventato, sono indagini sulla vita, che aprono all’illuminazione. Specie quelli dedicati alla pedagogia e alla morte, per cui è stato accostato a Illich, e Illich a lui. E come Ivan Illich (o viceversa), Montaigne era un uomo conviviale, profondamente amico dell’amicizia. E questa è una delle ragioni che più ce lo fanno amare.

Possiamo dire che egli scrisse la sua più grande opera spinto dall’amicizia. I Saggi, infatti, dovevano essere come un corollario al Discours sur la servitude volontaire del suo grande amico Étienne de la Boétie, morto nel 1563. Al centro dei Saggi doveva esservi il discorso di de la Boétie, «quadro fatto con tutto il suo talento», e attorno le «grottesche» di Montaigne. Opera che alla fine non fu inserita nei Saggi perché già pubblicata «a cattivo fine, da quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo, senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno». Per difendere la memoria dell’amico che, diceva, «da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente», Montaigne non pubblicò il Discorso, strumentalizzato a fini politici, e lo sostituì coi Ventinove sonetti di Étienne de la Boétie, espunti poi a loro volta dall’ultima edizione dei Saggi.

Grottesche, Uffizi
Considerando il procedimento seguito da un pittore in un’opera che possiedo, mi è venuta la voglia di imitarlo. Egli sceglie il posto più bello e il centro di ogni parete per collocarvi un quadro fatto con tutto il suo talento; e il vuoto tutt’intorno lo riempie di grotteschi, che sono pitture fantastiche le quali non hanno altro merito che la loro varietà e stranezza. Che cosa sono anche questi [Saggi], in verità, se non grotteschi e corpi mostruosi, messi insieme con membra diverse, senza una figura determinata, senz’altro ordine né legame né proporzione se non casuale? … Riesco a seguire il mio pittore fino a questo secondo punto, ma rimango indietro nell’altra parte, che è la migliore; infatti la mia presunzione non arriva fino a osar d’intraprendere un quadro ricco, rifinito e composto a regola d’arte. Ho pensato di prenderne uno a prestito da Étienne de la Boétie, che farà onore a tutto il resto di quest’opera.
(Dell’amicizia, I, XXVIII).

domenica 1 novembre 2009

Oggi muore Alda Merini


E quindi uscimmo a riveder le stelle

Oggi muore Alda Merini. Il rischio della banalità sta sempre dietro l’angolo, quando qualcuno muore. E di più quando muore un poeta. Quando muore un poeta, muore un po’ dell’amore, di quel poco amore che c’è nel mondo.


Questa non è una commemorazione. No! Il teatrino dei politicanti, dei «falsi intellettuali, giornalisti ignoranti, eroi, navigatori, profeti, vati, santi» è più in agguato che mai in questi momenti. E rimbalza su tutti i mezzi di distrazione di massa. Tutti, tutti avvoltoi appollaiati sulla spalliera del letto di Alda Merini, donna disobbediente, donna viva.

A lei non sarebbe piaciuto tutto questo, queste commemorazioni, queste parole, inevitabilmente prosaiche, che si scontrano con l’autenticità della sua poesia. Sento il bisogno di marcare le differenze, di riportare in vista le cicatrici, di mostrare le ferite, affinché tutti credano.

Donna disobbediente, ironicamente prendeva per il culo – quando ne aveva l’occasione, come nelle sue ultime spassose apparizioni televisive – gli stessi benpensanti che oggi si accalcano per commentare, per farsi vedere attorno al suo cadavere. Gli stessi rappresentanti di quella società che non l’ha mai accettata e rispettata veramente, lei e la sua poesia. Di quella società che pensava fosse meglio rinchiuderla e che, anche quando ormai era da tutti riconosciuta come poetessa e donna di lettere, continuava a considerarla una «matta», da non prendere troppo sul serio, soprattutto quando denunciava e diceva qualcosa di scomodo contro il potere burocratico e violento che più di ogni altra cosa la infastidiva, perché intralciava la sua poesia.

Alda Merini voleva diventare francescana – così diceva. Come Francesco d’Assisi sentiva il bisogno di spogliarsi sulla pubblica piazza, proprio di fronte a quei benpensanti che oggi dicono di ammirarla ma che non potranno mai comprendere la sua semplice e disarmante autenticità, quella che chiamano – e continuano a farlo – la sua pazzia. Senza capire, se questo conta davvero qualcosa, che follia è il nome dell’amore.

Edward Hopper, Sera d'estate (1947)

In un’intervista rilasciata alla televisione un anno fa la Merini dimostra tutta la sua autenticità – non so come altro chiamarla – le sue idiosincrasie, la sua personalità al di fuori da ogni snobismo radical chic, di ogni falso pudore peloso e benpensante, piccolo borghese. Mi piace ricordarla proprio in questi momenti, che dimostrano la sua veracità: «I giovani non li posso più scopare alla mia età… – ebbe a dire – Non mi scopa più nessuno!». E ancora: «Non so perché mi leggono… I miei lettori hanno il gusto dell’orrido. Voi fate fatica ad essere sani di mente: noi eravamo sani…».

La cosa più odiosa: le domande alla Merini sul manicomio. Piene di retorica e stomachevoli, sempre. Perché in una società dove non è ammesso il silenzio, non si accetta che di certi orrori non si possa parlare, come se si stesse chiacchierando dal parrucchiere o a Porta a Porta. Le risposte della Merini allora erano ironicamente fuori da ogni retorica, rispondeva come poteva e si limitava a dire: «Non tutti hanno retto lo spavento del manicomio. Io ci sono passata attraverso…».

Non so quanti abbiano veramente letto le poesie di Merini. Quanti abbiano davvero capito la sua poesia, con tutte le sue contraddizioni. So che Merini ha pagato la sua poesia con la vita e che cercheranno di tirarla da una parte o dall’altra. Ma so anche che resterà per sempre una «donna disobbediente», proprio perché poeta.

Requiem

ed ecco per te il mio requiem senza parole
con la bocca piena di erba e di felci azzurre
ecco il mio requiem della corifera che non
è creduta, della Cassandra che è vilipesa
magnifico esempio di segreta impresa
tu solo mi esalti e mi incanti perché
sei colui che non si può prendere ed essendo
fermo sulle rive del Gange in perenne
contemplazione aspettando che passi la pagliuzza
d’oro della conoscenza e dell’era eterna
tu che sei scaltro più della pietra e più
duro del sasso e che pensi perennemente
pensi alle ere pitagoriche e che veneri
Socrate e che infine sei Paolo di Tarso
atterrato dalla fede infinita ebbene io
ti disarcionerò dal tuo cavallo d’amore
filiale desiderante farò di te un martire
dell’ombra perché il segreto della tua
tristezza è l’ordine e il disordine delle
cose create perché io non sono dissimile a
tua madre a Cerere eterna e infine sono
anche la primavera che si mette sugli alberi
insieme alla rugiada e tu ami la rosa della
vergogna che mi trovo appuntata sul petto
e tu le esalti e le scorri con le tue dita
feconde. Potessi così capire il mio desiderio
che si apre il fiore della carne infinitamente bella
e trovarvi dentro il seme insaziabile
dell’amore e dell’ebbrezza potessi sprezzante te
spargere sangue insieme disseminare
la discordia degli abissi perché sei
il murmure pieno e il precipizio delle
albe e perché infine tu conosci il senso
della bellezza. Io aborro pensare ma
aborro anche muovermi nel caos infinito.

(Alda Merini, da Come polvere o vento)

domenica 25 ottobre 2009

Ivan Illich e la perdita dei sensi

La perdita dei sensi di Ivan Illich, uscito per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina lo scorso settembre, completa il corpus delle opere illichiane, proponendo in italiano i saggi, i discorsi e i testi di conferenze che coprono l’ultima fase della vita di Illich, dal 1987 al 2002.

Ivan Illich (1926 - 2002)

Il volume, uscito postumo in Francia nel 2004 col titolo La Perte des sens, è un’opera fondamentale per comprendere le ultime fasi del pensiero del grande storico e filosofo, che ha sempre testimoniato con la vita la sua critica dello sviluppo, delle istituzioni e della società dei servizi. La raccolta, eterogenea sia per generi sia per argomenti trattati, permette di approfondire i temi dell’ultimo Illich, già proposti al lettore italiano dai due preziosi volumi di conversazioni curati da David Cayley pubblicati dalla casa editrice Quodlibet di Macerata (Pervertimento del Cristianesimo, 2008 e I fiumi a nord del futuro, 2009). La perdita dei sensi consente ora di avvicinarsi al pensiero dello studioso con più precisione e rigore, ampliando e specificando meglio quanto già apparso negli ultimi anni in Italia, specialmente in I fiumi a nord del futuro, anche se l’apparato critico del volume lascia un po’ a desiderare: volutamente si è preferito non riportare in nota le edizioni italiane dei testi citati, e l’indice analitico non è pienamente esaustivo.

I temi raccolti da Illich in questa sua ultima pubblicazione, cui lavorò insieme a Valentina Borremans prima della morte, avvenuta nel 2002, vanno dalla ricerca sull’origine e la critica dei servizi (in primis scuola e salute, questioni da sempre care all’autore) sino alla storia dei bisogni e agli argomenti «economici» tesi a «risvegliare dal sonno economico» e a far «perdere la fede nell’Homo oeconomicus», illuminante a proposito è la conferenza su Leopold Kohr del 1994. Grande spazio occupano poi i temi della mutazione delle percezioni: della visione (storia dell’ottica), del leggere (lectio divina e mutazione del testo), del sentire (amplificazione…). Commoventi poi, per la loro preveggenza e la loro incidenza sull’esistenza delle persone, le riflessioni sul morire: particolarmente toccanti e significative la lettera sulla «Longevità postuma», scritta a delle monache di clausura, e quella su «La perdita del mondo della carne», indirizzata all’amico Hellmut Becker.

Illich, in questo libro, si trova più volte a rileggere le sue opere precedenti, specialmente Medical Nemesis, alla luce dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi trent’anni, confrontandosi con la «società dei sistemi» che ha inciso inaspettatamente sulla percezione del sé in relazione all’‘altro’, al di là di ogni critica dello sviluppo e che – secondo l’autore – esige analisi sempre più complesse.

L’obbiettivo di Illich, per cui si batte in tutti questi interventi, è «la rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ‘show’, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro». Pratiche ascetiche che devono necessariamente basarsi sull’amicizia. «Ho scritto questi saggi – ricorda Illich – durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis».

Antonio Mascia, Fumfiafuò (2006)

La perdita della morte (e della vita)

Tra i molti argomenti trattati da Illich ne La perdita dei sensi, la critica alla «a-mortalità» proposta in queste pagine risulta particolarmente preziosa: precisa, infatti, il pensiero dell’autore su quelli che noi siamo oggi abituati a chiamare i «temi della bioetica». Su questo punto spesso Illich viene frainteso da chi fa dei suoi testi una lettura superficiale, non comprendendo che egli si colloca al di là della cosiddetta bioetica. Compiendo una critica radicale delle categorie mediche imposte dall’ideologia dello sviluppo, Illich si schiera contro ogni rappresentazione degli esseri viventi come «sistemi immunitari», concezione che legittima la riduzione dell’essere umano a «una vita». «‘Zigote’ – afferma – è il nome dato all’uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell’utero. Questo ‘fatto scientifico’ sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano». Ma come si è arrivati a questo? «Almeno in parte perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io’ per il riconoscimento dell’‘altro’ – all’occorrenza, la madre» (p. 252).

Illich rivendica il «contatto con la carne» e, in questo senso, si colloca al di là (o al di qua) della bioetica, in quanto considera la morte e la sofferenza due territori che devono restare estranei alla medicina. I medici antichi «imparavano a riconoscere la facies ippocratica, l’espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nell’atrio della morte. In questa soglia la ritirata era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente». Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla «crescita esponenziale dei costi delle ‘cure’ terminali, al miserabile prolungamento di ‘pazienti’ tuffati in un coma irreversibile e che hanno l’esigenza che una ‘buona morte’ – letteralmente eu-thanasia – sia riconosciuta come una parte della missione assegnata al ‘corpo curante’» (pagg. 254 – 255).

È facile comprendere come questa critica radicale del «sistema medico», che viene prima di ogni bioetica, con tutta la sua libertà e il suo coraggio, difficilmente può essere accettata dalle fazioni che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della «vita» ad ogni costo – grazie alle preziose tecniche della medicina – sia i difensori della «libertà» e della «buona morte» si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva illichiana. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l’accettazione a-critica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o «pro» o «contro» – e viceversa) restano schiavi della medicalizzazione della vita – e della morte. Due facce della stessa medaglia, insomma. Illich scompagina questa dicotomia con la sua libertà, che si coniuga nell’amicizia e nella prassi ascetica e conviviale (che è «destinata all’uomo austeramente anarchico», scriveva ne La convivialità). In questo senso Ivan Illich è fuori da ogni bioetica, proprio perché è conseguenza della medicalizzazione. «Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno … Nell’era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d’ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine» (p. 260).

• Ivan Illich, La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pagg. 352, euro 18.

sabato 17 ottobre 2009

La rete

C’è una rete che intrappola, che inviluppa e che, mentre irretisce, dà l’illusione che si possa continuare a nuotare liberamente. Chi cade in questa rete non si accorge di essere stato manovrato sin dall’inizio. Non si accorge che la rete diventa sempre più ampia, e che è stranamente invisibile nonostante sia sotto gli occhi di tutti.


Il sistema di cui ormai facciamo parte, e non mi riferisco solo alla situazione italiana – paradigmatica, per più versi, di una degenerazione più ampia – è una rete, un rezzaglio. La metafora è di Andrea Camilleri, che la utilizza nel suo ultimo libro La rizzagliata, uno dei romanzi più «civili» che abbia scritto.

L’aspetto più inquietante è che chi viene manovrato non si accorge di essere parte di una meccanismo più ampio. Che tutto vuole controllare. Una macchina che finisce inevitabilmente per sfuggire al controllo dei suoi manovratori. E se questo sembra uno scenario da romanzo distopico, dunque solo un romanzo, non ci vuole molto per capire che molta della letteratura distopica del Novecento ha finito per farsi realtà, o quantomeno per annunciare i cambiamenti che la società ha effettivamente subito.

Bisogna stare attenti e leggere tra le pieghe della realtà le corrispondenze che possiamo trovare tra questo mondo e il mondo come ce lo hanno raccontato Orwell, Huxley… E comparare queste «previsioni» con quelle dei più feroci critici delle modernità. Guardare nello specchio del passato il presente e leggere attraverso la lente del romanzo il futuro.

È ’na rete a forma di campana, chiusa in àvuto e aperta a vascio, un’apertura assà larga contornata di piombini. La fai roteare col vrazzo isato e po’ la lanci. La riti, che deve ricadiri come un ombrello aperto, veni portata sott’acqua dal piso dei piombini. A un certo momento il piscatori tira ’na corda e la parti ’nferiori della riti si chiude. E dintra ci restano i pisci. ’Na bella rizzagliata … I pisci cchiù stùpiti o i cchiù lenti, naturalmente, pirchì quelli sperti, videnno la riti calare, si scansano ’n tempo.
(A. Camilleri, La rizzagliata, Sellerio, Palermo 2009, pagg. 205-206)

sabato 10 ottobre 2009

Ivan Illich

C’è un’impressionante racconto di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič (1886), che anticipando i tempi, affronta il tema della «medicalizzazione della vita». Il protagonista del racconto si trova alle prese con la morte irreversibile e con i suoi familiari, che in ogni modo tentano di evitare il tema della sua morte.

Lev Tolstoj (1828 - 1910) in una straordinaria fotografia
a colori del 1908 di S.M. Prokudin-Gorskij

Tolstoj non poteva sapere che, a quarant’anni dalla morte del protagonista del suo racconto, sarebbe venuto alla luce a Vienna un altro Ivan Illich, maestro irregolare del secolo appena trascorso, che nella sua opera più importante (Nemesi medica) cercò di metterci in guardia dall’espropriazione della salute perpetrata dalla classe medica. Chi si accorse di questa comunanza oltre il tempo fu Leonardo Sciascia, il quale giunse a proporre che nelle traduzioni italiane del racconto di Tolstoj non si scrivesse più Ivan Il’ič, Ivàn Iljíč o Ivan Ilíč ma, più semplicemente, Ivan Illich (L. Sciascia, Cronachette, in Opere 1971-1983, Milano 2001, pag. 1219).

Ma chi fu Ivan Illich? Egli amava definirsi prima di tutto uno storico – anche se questa definizione a molti appare riduttiva. Uno storico che cerca sempre di avere un piede saldo nel passato per guadagnare una prospettiva sul presente, «non come un antiquario esperto di un passato caratteristico, ma come uno storico che cerca di far riemergere ciò che del passato è parte di noi» (I. Illich, La perdita dei sensi, Firenze 2009, pag. 12).

Ivan Illich (1926 - 2002)

Ogni volta che Ivan Illich apriva bocca temeva di essere frainteso. E molte volte il corso delle cose dimostrò come questa sua preoccupazione fosse fondata (si pensi agli infuocati dibattiti che seguirono la pubblicazione delle sue due opere più famose: Deschooling Society e Medical Nemesis). Questo avveniva perché egli, rompendo completamente gli schemi, era sempre capace di proporre una visione alternativa delle cose, una prospettiva fuori da ogni schieramento.

Illich fu prima di tutto uomo della convivialità. La critica che durante la sua vita mosse alla società dello sviluppo e alla sue istituzioni partiva dalla consapevolezza che non fosse possibile continuare a delegare conoscenze, saperi e capacità di intervento alla tecnica. Egli propose la strada della «convivialità» – che non è utopia (non-luogo) ma eu-topia (buon-luogo) – intesa in senso sociale e culturale: «Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni». Una strada verso la gioia e l’amicizia. Un cammino di emancipazione che consenta di riprendere in mano le cose e di rivendicare la libertà di intervenire nella materialità del vivere, nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre comunità.

In nome della convivialità, Illich contestò la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (la scuola, la sanità, i trasporti, il lavoro) e studiò le trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo.

Per Illich uno dei problemi fondamentali era quello del limite, del pericolo di ignorare i limiti. Egli, in Nemesi medica (1976), descrisse l’espropriazione della salute come diretta conseguenza dell’operare di una classe medica «diventata una grave minaccia per la salute», responsabile di una sempre maggiore medicalizzazione della vita. Fu un audace anticipatore dei vastissimi problemi della cosiddetta bioetica, il problema della fine e dell’inizio della vita. Illich parlava di iatrogenesi (i danni creati dalla medicina) in senso clinico, sociale e culturale; la iatrogenesi culturale «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà». Di conseguenza «la società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni [il malato] dovrà morire … L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2005, pag. 205). Illich non poteva minimamente accettare che fosse la medicina a stabilire, con le sue tecniche e i suoi protocolli, con i suoi respiratori artificiali e i suoi sondini gastrici, quando e come a un uomo era consentito morire. Non poteva accettare che fosse il medico ad avere la completa responsabilità della vita, «da sperma a verme» (da Medical Nemesis, cit. in I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Macerata 2009, pag. 252).

Riflessioni che furono testimoniate da Illich attraverso il proprio corpo. Quando alla fine degli anni ’70 fu colpito da una crescita tumorale sul volto, decise di lasciarla stare, senza intervenire chirurgicamente e alleviando il dolore che il tumore gli provocava fumando oppio, ricorrendo all’agopuntura e allo yoga. La decisione di rifiutare ogni trattamento medico contro il tumore che gli comparve sulla guancia, che giunse a diventare grosso come un pompelmo e che lo accompagnò per vent’anni, fino alla sua morte, non deve essere letta come un atto di fondamentalismo o di oscurantismo ma semplicemente come la presa di coscienza che la malattia doveva essere accettata come parte del proprio essere; egli la chiamava: «la mia mortalità».

Illich fu sempre un pensatore fuori da ogni schema, e ancor’oggi il suo pensiero è scomodo. Critico della modernità, proprio negli aspetti che secondo i luoghi comuni sono normalmente considerati positivi (la scuola, la medicina, ecc), le sue analisi e le sue provocazioni ci interpellano ancora, a distanza di anni, e continueranno a farlo nel futuro.


Ivan Illich (1926-2002), storico e critico della modernità. Prete cattolico, rinunciò all’esercizio pubblico del ministero nel 1969 a causa delle censure ecclesiastiche dovute alla sua attività di oppositore dello «sviluppo», esportato nei paesi poveri come forma più raffinata e pericolosa di colonialismo. Divenne celebre per aver contestato la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (Descolarizzare la società, 1971; La convivialità, 1973; Nemesi medica, 1976). In seguito, fu un acuto studioso delle trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo (Il genere e il sesso, 1982; Nello specchio del passato, 1992; Nella vigna del testo, 1993).

J. B. Greuze, Le fils puni.
Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini ... Lo trovò presto: la biblioteca piccola, silenziosa, illuminata e vuota … Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della Morte del giusto di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, tra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinnanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno.
(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, pag. 223).

sabato 3 ottobre 2009

Ius murmurandi

Forse resta davvero, soltanto, lo Ius murmurandi. E mancano i luoghi dove sia possibile esercitare questo diritto («l’unico diritto non del tutto conculcato, che sia sopravvissuto nella nostra democrazia incompiuta», ha scritto Santo Piazzese). La mormorazione avviene tra le mura di casa, con gli amici di provata fede, in luoghi protetti.

Ora, in Italia, nella nostra disastrata e disastrosa situazione politica e sociale, non manca il diritto di parola. Ma, questo diritto, anche quando si intende esercitarlo con tutta l’energia che si ha, resta per lo più inespresso. La voce della verità (con la ‘v’ minuscola) che nasce dalla libertà di parola (parresia) resta inascoltata. E non solo: ogni piccola ‘verità’ che riesce a trapelare viene immediatamente ribaltata, corrotta, pervertita.

In queste condizioni, qualsiasi diritto di parola, qualsiasi libertà di stampa, è superflua perché, seppure esercitata con ogni buona volontà, non raggiunge alcun effetto sulla cosiddetta ‘opinione pubblica’. Per non parlare poi della totale non-incidenza che ha su chi governa e amministra il potere e sui risultati elettorali.

Resta, forse – e me lo chiedo – solo lo Ius murmurandi. Una residua libertà relegata agli ambiti più individuali e domestici. Sì che, apro questo spazio virtuale. Non tanto per scelta, quanto per un’urgenza viscerale dettata dalla necessità di creare luoghi dove si possa esercitare, tra amici, la mormorazione, che qui non intendiamo mai come pettegolezzo ma come critica radicale al potere, senza peli sulla lingua, senza calcoli strategici e ‘politici’, con ironia.

Salvo (Salvatore Mangione), Paesaggio

Sono ragionevolmente certo che se Sciascia fosse vivo ai nostri giorni non potrebbe che prendere atto dell’essersi avverata quella sorta di profezia-avvertimento che lui aveva rappresentata con la famosa metafora della linea della palma. Lo scrittore racalmutese era rimasto colpito dalla notizia che, per effetto del riscaldamento globale, la latitudine massima alla quale le palme trovano condizioni di vita ottimali si sposta di qualche centinaio di metri l’anno da sud verso nord. Sciascia, con quella sua amara ironia che non finiamo di rimpiangere, vi prefigurava la progressiva «sicilianizzazione», nel peggio, dell’Italia. Quello che forse lui non arrivò a immaginare è la forte accelerazione che il processo avrebbe conosciuto negli anni successivi alla sua morte. Italia irredimibile, avrebbe detto.
(Santo Piazzese, Perché è impossibile decifrare Palermo)


sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»