domenica 25 ottobre 2009

Ivan Illich e la perdita dei sensi

La perdita dei sensi di Ivan Illich, uscito per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina lo scorso settembre, completa il corpus delle opere illichiane, proponendo in italiano i saggi, i discorsi e i testi di conferenze che coprono l’ultima fase della vita di Illich, dal 1987 al 2002.

Ivan Illich (1926 - 2002)

Il volume, uscito postumo in Francia nel 2004 col titolo La Perte des sens, è un’opera fondamentale per comprendere le ultime fasi del pensiero del grande storico e filosofo, che ha sempre testimoniato con la vita la sua critica dello sviluppo, delle istituzioni e della società dei servizi. La raccolta, eterogenea sia per generi sia per argomenti trattati, permette di approfondire i temi dell’ultimo Illich, già proposti al lettore italiano dai due preziosi volumi di conversazioni curati da David Cayley pubblicati dalla casa editrice Quodlibet di Macerata (Pervertimento del Cristianesimo, 2008 e I fiumi a nord del futuro, 2009). La perdita dei sensi consente ora di avvicinarsi al pensiero dello studioso con più precisione e rigore, ampliando e specificando meglio quanto già apparso negli ultimi anni in Italia, specialmente in I fiumi a nord del futuro, anche se l’apparato critico del volume lascia un po’ a desiderare: volutamente si è preferito non riportare in nota le edizioni italiane dei testi citati, e l’indice analitico non è pienamente esaustivo.

I temi raccolti da Illich in questa sua ultima pubblicazione, cui lavorò insieme a Valentina Borremans prima della morte, avvenuta nel 2002, vanno dalla ricerca sull’origine e la critica dei servizi (in primis scuola e salute, questioni da sempre care all’autore) sino alla storia dei bisogni e agli argomenti «economici» tesi a «risvegliare dal sonno economico» e a far «perdere la fede nell’Homo oeconomicus», illuminante a proposito è la conferenza su Leopold Kohr del 1994. Grande spazio occupano poi i temi della mutazione delle percezioni: della visione (storia dell’ottica), del leggere (lectio divina e mutazione del testo), del sentire (amplificazione…). Commoventi poi, per la loro preveggenza e la loro incidenza sull’esistenza delle persone, le riflessioni sul morire: particolarmente toccanti e significative la lettera sulla «Longevità postuma», scritta a delle monache di clausura, e quella su «La perdita del mondo della carne», indirizzata all’amico Hellmut Becker.

Illich, in questo libro, si trova più volte a rileggere le sue opere precedenti, specialmente Medical Nemesis, alla luce dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi trent’anni, confrontandosi con la «società dei sistemi» che ha inciso inaspettatamente sulla percezione del sé in relazione all’‘altro’, al di là di ogni critica dello sviluppo e che – secondo l’autore – esige analisi sempre più complesse.

L’obbiettivo di Illich, per cui si batte in tutti questi interventi, è «la rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ‘show’, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro». Pratiche ascetiche che devono necessariamente basarsi sull’amicizia. «Ho scritto questi saggi – ricorda Illich – durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis».

Antonio Mascia, Fumfiafuò (2006)

La perdita della morte (e della vita)

Tra i molti argomenti trattati da Illich ne La perdita dei sensi, la critica alla «a-mortalità» proposta in queste pagine risulta particolarmente preziosa: precisa, infatti, il pensiero dell’autore su quelli che noi siamo oggi abituati a chiamare i «temi della bioetica». Su questo punto spesso Illich viene frainteso da chi fa dei suoi testi una lettura superficiale, non comprendendo che egli si colloca al di là della cosiddetta bioetica. Compiendo una critica radicale delle categorie mediche imposte dall’ideologia dello sviluppo, Illich si schiera contro ogni rappresentazione degli esseri viventi come «sistemi immunitari», concezione che legittima la riduzione dell’essere umano a «una vita». «‘Zigote’ – afferma – è il nome dato all’uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell’utero. Questo ‘fatto scientifico’ sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano». Ma come si è arrivati a questo? «Almeno in parte perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io’ per il riconoscimento dell’‘altro’ – all’occorrenza, la madre» (p. 252).

Illich rivendica il «contatto con la carne» e, in questo senso, si colloca al di là (o al di qua) della bioetica, in quanto considera la morte e la sofferenza due territori che devono restare estranei alla medicina. I medici antichi «imparavano a riconoscere la facies ippocratica, l’espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nell’atrio della morte. In questa soglia la ritirata era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente». Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla «crescita esponenziale dei costi delle ‘cure’ terminali, al miserabile prolungamento di ‘pazienti’ tuffati in un coma irreversibile e che hanno l’esigenza che una ‘buona morte’ – letteralmente eu-thanasia – sia riconosciuta come una parte della missione assegnata al ‘corpo curante’» (pagg. 254 – 255).

È facile comprendere come questa critica radicale del «sistema medico», che viene prima di ogni bioetica, con tutta la sua libertà e il suo coraggio, difficilmente può essere accettata dalle fazioni che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della «vita» ad ogni costo – grazie alle preziose tecniche della medicina – sia i difensori della «libertà» e della «buona morte» si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva illichiana. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l’accettazione a-critica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o «pro» o «contro» – e viceversa) restano schiavi della medicalizzazione della vita – e della morte. Due facce della stessa medaglia, insomma. Illich scompagina questa dicotomia con la sua libertà, che si coniuga nell’amicizia e nella prassi ascetica e conviviale (che è «destinata all’uomo austeramente anarchico», scriveva ne La convivialità). In questo senso Ivan Illich è fuori da ogni bioetica, proprio perché è conseguenza della medicalizzazione. «Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno … Nell’era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d’ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine» (p. 260).

• Ivan Illich, La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pagg. 352, euro 18.

sabato 17 ottobre 2009

La rete

C’è una rete che intrappola, che inviluppa e che, mentre irretisce, dà l’illusione che si possa continuare a nuotare liberamente. Chi cade in questa rete non si accorge di essere stato manovrato sin dall’inizio. Non si accorge che la rete diventa sempre più ampia, e che è stranamente invisibile nonostante sia sotto gli occhi di tutti.


Il sistema di cui ormai facciamo parte, e non mi riferisco solo alla situazione italiana – paradigmatica, per più versi, di una degenerazione più ampia – è una rete, un rezzaglio. La metafora è di Andrea Camilleri, che la utilizza nel suo ultimo libro La rizzagliata, uno dei romanzi più «civili» che abbia scritto.

L’aspetto più inquietante è che chi viene manovrato non si accorge di essere parte di una meccanismo più ampio. Che tutto vuole controllare. Una macchina che finisce inevitabilmente per sfuggire al controllo dei suoi manovratori. E se questo sembra uno scenario da romanzo distopico, dunque solo un romanzo, non ci vuole molto per capire che molta della letteratura distopica del Novecento ha finito per farsi realtà, o quantomeno per annunciare i cambiamenti che la società ha effettivamente subito.

Bisogna stare attenti e leggere tra le pieghe della realtà le corrispondenze che possiamo trovare tra questo mondo e il mondo come ce lo hanno raccontato Orwell, Huxley… E comparare queste «previsioni» con quelle dei più feroci critici delle modernità. Guardare nello specchio del passato il presente e leggere attraverso la lente del romanzo il futuro.

È ’na rete a forma di campana, chiusa in àvuto e aperta a vascio, un’apertura assà larga contornata di piombini. La fai roteare col vrazzo isato e po’ la lanci. La riti, che deve ricadiri come un ombrello aperto, veni portata sott’acqua dal piso dei piombini. A un certo momento il piscatori tira ’na corda e la parti ’nferiori della riti si chiude. E dintra ci restano i pisci. ’Na bella rizzagliata … I pisci cchiù stùpiti o i cchiù lenti, naturalmente, pirchì quelli sperti, videnno la riti calare, si scansano ’n tempo.
(A. Camilleri, La rizzagliata, Sellerio, Palermo 2009, pagg. 205-206)

sabato 10 ottobre 2009

Ivan Illich

C’è un’impressionante racconto di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič (1886), che anticipando i tempi, affronta il tema della «medicalizzazione della vita». Il protagonista del racconto si trova alle prese con la morte irreversibile e con i suoi familiari, che in ogni modo tentano di evitare il tema della sua morte.

Lev Tolstoj (1828 - 1910) in una straordinaria fotografia
a colori del 1908 di S.M. Prokudin-Gorskij

Tolstoj non poteva sapere che, a quarant’anni dalla morte del protagonista del suo racconto, sarebbe venuto alla luce a Vienna un altro Ivan Illich, maestro irregolare del secolo appena trascorso, che nella sua opera più importante (Nemesi medica) cercò di metterci in guardia dall’espropriazione della salute perpetrata dalla classe medica. Chi si accorse di questa comunanza oltre il tempo fu Leonardo Sciascia, il quale giunse a proporre che nelle traduzioni italiane del racconto di Tolstoj non si scrivesse più Ivan Il’ič, Ivàn Iljíč o Ivan Ilíč ma, più semplicemente, Ivan Illich (L. Sciascia, Cronachette, in Opere 1971-1983, Milano 2001, pag. 1219).

Ma chi fu Ivan Illich? Egli amava definirsi prima di tutto uno storico – anche se questa definizione a molti appare riduttiva. Uno storico che cerca sempre di avere un piede saldo nel passato per guadagnare una prospettiva sul presente, «non come un antiquario esperto di un passato caratteristico, ma come uno storico che cerca di far riemergere ciò che del passato è parte di noi» (I. Illich, La perdita dei sensi, Firenze 2009, pag. 12).

Ivan Illich (1926 - 2002)

Ogni volta che Ivan Illich apriva bocca temeva di essere frainteso. E molte volte il corso delle cose dimostrò come questa sua preoccupazione fosse fondata (si pensi agli infuocati dibattiti che seguirono la pubblicazione delle sue due opere più famose: Deschooling Society e Medical Nemesis). Questo avveniva perché egli, rompendo completamente gli schemi, era sempre capace di proporre una visione alternativa delle cose, una prospettiva fuori da ogni schieramento.

Illich fu prima di tutto uomo della convivialità. La critica che durante la sua vita mosse alla società dello sviluppo e alla sue istituzioni partiva dalla consapevolezza che non fosse possibile continuare a delegare conoscenze, saperi e capacità di intervento alla tecnica. Egli propose la strada della «convivialità» – che non è utopia (non-luogo) ma eu-topia (buon-luogo) – intesa in senso sociale e culturale: «Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni». Una strada verso la gioia e l’amicizia. Un cammino di emancipazione che consenta di riprendere in mano le cose e di rivendicare la libertà di intervenire nella materialità del vivere, nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre comunità.

In nome della convivialità, Illich contestò la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (la scuola, la sanità, i trasporti, il lavoro) e studiò le trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo.

Per Illich uno dei problemi fondamentali era quello del limite, del pericolo di ignorare i limiti. Egli, in Nemesi medica (1976), descrisse l’espropriazione della salute come diretta conseguenza dell’operare di una classe medica «diventata una grave minaccia per la salute», responsabile di una sempre maggiore medicalizzazione della vita. Fu un audace anticipatore dei vastissimi problemi della cosiddetta bioetica, il problema della fine e dell’inizio della vita. Illich parlava di iatrogenesi (i danni creati dalla medicina) in senso clinico, sociale e culturale; la iatrogenesi culturale «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà». Di conseguenza «la società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni [il malato] dovrà morire … L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2005, pag. 205). Illich non poteva minimamente accettare che fosse la medicina a stabilire, con le sue tecniche e i suoi protocolli, con i suoi respiratori artificiali e i suoi sondini gastrici, quando e come a un uomo era consentito morire. Non poteva accettare che fosse il medico ad avere la completa responsabilità della vita, «da sperma a verme» (da Medical Nemesis, cit. in I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Macerata 2009, pag. 252).

Riflessioni che furono testimoniate da Illich attraverso il proprio corpo. Quando alla fine degli anni ’70 fu colpito da una crescita tumorale sul volto, decise di lasciarla stare, senza intervenire chirurgicamente e alleviando il dolore che il tumore gli provocava fumando oppio, ricorrendo all’agopuntura e allo yoga. La decisione di rifiutare ogni trattamento medico contro il tumore che gli comparve sulla guancia, che giunse a diventare grosso come un pompelmo e che lo accompagnò per vent’anni, fino alla sua morte, non deve essere letta come un atto di fondamentalismo o di oscurantismo ma semplicemente come la presa di coscienza che la malattia doveva essere accettata come parte del proprio essere; egli la chiamava: «la mia mortalità».

Illich fu sempre un pensatore fuori da ogni schema, e ancor’oggi il suo pensiero è scomodo. Critico della modernità, proprio negli aspetti che secondo i luoghi comuni sono normalmente considerati positivi (la scuola, la medicina, ecc), le sue analisi e le sue provocazioni ci interpellano ancora, a distanza di anni, e continueranno a farlo nel futuro.


Ivan Illich (1926-2002), storico e critico della modernità. Prete cattolico, rinunciò all’esercizio pubblico del ministero nel 1969 a causa delle censure ecclesiastiche dovute alla sua attività di oppositore dello «sviluppo», esportato nei paesi poveri come forma più raffinata e pericolosa di colonialismo. Divenne celebre per aver contestato la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (Descolarizzare la società, 1971; La convivialità, 1973; Nemesi medica, 1976). In seguito, fu un acuto studioso delle trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo (Il genere e il sesso, 1982; Nello specchio del passato, 1992; Nella vigna del testo, 1993).

J. B. Greuze, Le fils puni.
Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini ... Lo trovò presto: la biblioteca piccola, silenziosa, illuminata e vuota … Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della Morte del giusto di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, tra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinnanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno.
(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, pag. 223).

sabato 3 ottobre 2009

Ius murmurandi

Forse resta davvero, soltanto, lo Ius murmurandi. E mancano i luoghi dove sia possibile esercitare questo diritto («l’unico diritto non del tutto conculcato, che sia sopravvissuto nella nostra democrazia incompiuta», ha scritto Santo Piazzese). La mormorazione avviene tra le mura di casa, con gli amici di provata fede, in luoghi protetti.

Ora, in Italia, nella nostra disastrata e disastrosa situazione politica e sociale, non manca il diritto di parola. Ma, questo diritto, anche quando si intende esercitarlo con tutta l’energia che si ha, resta per lo più inespresso. La voce della verità (con la ‘v’ minuscola) che nasce dalla libertà di parola (parresia) resta inascoltata. E non solo: ogni piccola ‘verità’ che riesce a trapelare viene immediatamente ribaltata, corrotta, pervertita.

In queste condizioni, qualsiasi diritto di parola, qualsiasi libertà di stampa, è superflua perché, seppure esercitata con ogni buona volontà, non raggiunge alcun effetto sulla cosiddetta ‘opinione pubblica’. Per non parlare poi della totale non-incidenza che ha su chi governa e amministra il potere e sui risultati elettorali.

Resta, forse – e me lo chiedo – solo lo Ius murmurandi. Una residua libertà relegata agli ambiti più individuali e domestici. Sì che, apro questo spazio virtuale. Non tanto per scelta, quanto per un’urgenza viscerale dettata dalla necessità di creare luoghi dove si possa esercitare, tra amici, la mormorazione, che qui non intendiamo mai come pettegolezzo ma come critica radicale al potere, senza peli sulla lingua, senza calcoli strategici e ‘politici’, con ironia.

Salvo (Salvatore Mangione), Paesaggio

Sono ragionevolmente certo che se Sciascia fosse vivo ai nostri giorni non potrebbe che prendere atto dell’essersi avverata quella sorta di profezia-avvertimento che lui aveva rappresentata con la famosa metafora della linea della palma. Lo scrittore racalmutese era rimasto colpito dalla notizia che, per effetto del riscaldamento globale, la latitudine massima alla quale le palme trovano condizioni di vita ottimali si sposta di qualche centinaio di metri l’anno da sud verso nord. Sciascia, con quella sua amara ironia che non finiamo di rimpiangere, vi prefigurava la progressiva «sicilianizzazione», nel peggio, dell’Italia. Quello che forse lui non arrivò a immaginare è la forte accelerazione che il processo avrebbe conosciuto negli anni successivi alla sua morte. Italia irredimibile, avrebbe detto.
(Santo Piazzese, Perché è impossibile decifrare Palermo)


sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»