sabato 10 ottobre 2009

Ivan Illich

C’è un’impressionante racconto di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič (1886), che anticipando i tempi, affronta il tema della «medicalizzazione della vita». Il protagonista del racconto si trova alle prese con la morte irreversibile e con i suoi familiari, che in ogni modo tentano di evitare il tema della sua morte.

Lev Tolstoj (1828 - 1910) in una straordinaria fotografia
a colori del 1908 di S.M. Prokudin-Gorskij

Tolstoj non poteva sapere che, a quarant’anni dalla morte del protagonista del suo racconto, sarebbe venuto alla luce a Vienna un altro Ivan Illich, maestro irregolare del secolo appena trascorso, che nella sua opera più importante (Nemesi medica) cercò di metterci in guardia dall’espropriazione della salute perpetrata dalla classe medica. Chi si accorse di questa comunanza oltre il tempo fu Leonardo Sciascia, il quale giunse a proporre che nelle traduzioni italiane del racconto di Tolstoj non si scrivesse più Ivan Il’ič, Ivàn Iljíč o Ivan Ilíč ma, più semplicemente, Ivan Illich (L. Sciascia, Cronachette, in Opere 1971-1983, Milano 2001, pag. 1219).

Ma chi fu Ivan Illich? Egli amava definirsi prima di tutto uno storico – anche se questa definizione a molti appare riduttiva. Uno storico che cerca sempre di avere un piede saldo nel passato per guadagnare una prospettiva sul presente, «non come un antiquario esperto di un passato caratteristico, ma come uno storico che cerca di far riemergere ciò che del passato è parte di noi» (I. Illich, La perdita dei sensi, Firenze 2009, pag. 12).

Ivan Illich (1926 - 2002)

Ogni volta che Ivan Illich apriva bocca temeva di essere frainteso. E molte volte il corso delle cose dimostrò come questa sua preoccupazione fosse fondata (si pensi agli infuocati dibattiti che seguirono la pubblicazione delle sue due opere più famose: Deschooling Society e Medical Nemesis). Questo avveniva perché egli, rompendo completamente gli schemi, era sempre capace di proporre una visione alternativa delle cose, una prospettiva fuori da ogni schieramento.

Illich fu prima di tutto uomo della convivialità. La critica che durante la sua vita mosse alla società dello sviluppo e alla sue istituzioni partiva dalla consapevolezza che non fosse possibile continuare a delegare conoscenze, saperi e capacità di intervento alla tecnica. Egli propose la strada della «convivialità» – che non è utopia (non-luogo) ma eu-topia (buon-luogo) – intesa in senso sociale e culturale: «Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni». Una strada verso la gioia e l’amicizia. Un cammino di emancipazione che consenta di riprendere in mano le cose e di rivendicare la libertà di intervenire nella materialità del vivere, nelle nostre città, nelle nostre case, nelle nostre comunità.

In nome della convivialità, Illich contestò la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (la scuola, la sanità, i trasporti, il lavoro) e studiò le trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo.

Per Illich uno dei problemi fondamentali era quello del limite, del pericolo di ignorare i limiti. Egli, in Nemesi medica (1976), descrisse l’espropriazione della salute come diretta conseguenza dell’operare di una classe medica «diventata una grave minaccia per la salute», responsabile di una sempre maggiore medicalizzazione della vita. Fu un audace anticipatore dei vastissimi problemi della cosiddetta bioetica, il problema della fine e dell’inizio della vita. Illich parlava di iatrogenesi (i danni creati dalla medicina) in senso clinico, sociale e culturale; la iatrogenesi culturale «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà». Di conseguenza «la società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni [il malato] dovrà morire … L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2005, pag. 205). Illich non poteva minimamente accettare che fosse la medicina a stabilire, con le sue tecniche e i suoi protocolli, con i suoi respiratori artificiali e i suoi sondini gastrici, quando e come a un uomo era consentito morire. Non poteva accettare che fosse il medico ad avere la completa responsabilità della vita, «da sperma a verme» (da Medical Nemesis, cit. in I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Macerata 2009, pag. 252).

Riflessioni che furono testimoniate da Illich attraverso il proprio corpo. Quando alla fine degli anni ’70 fu colpito da una crescita tumorale sul volto, decise di lasciarla stare, senza intervenire chirurgicamente e alleviando il dolore che il tumore gli provocava fumando oppio, ricorrendo all’agopuntura e allo yoga. La decisione di rifiutare ogni trattamento medico contro il tumore che gli comparve sulla guancia, che giunse a diventare grosso come un pompelmo e che lo accompagnò per vent’anni, fino alla sua morte, non deve essere letta come un atto di fondamentalismo o di oscurantismo ma semplicemente come la presa di coscienza che la malattia doveva essere accettata come parte del proprio essere; egli la chiamava: «la mia mortalità».

Illich fu sempre un pensatore fuori da ogni schema, e ancor’oggi il suo pensiero è scomodo. Critico della modernità, proprio negli aspetti che secondo i luoghi comuni sono normalmente considerati positivi (la scuola, la medicina, ecc), le sue analisi e le sue provocazioni ci interpellano ancora, a distanza di anni, e continueranno a farlo nel futuro.


Ivan Illich (1926-2002), storico e critico della modernità. Prete cattolico, rinunciò all’esercizio pubblico del ministero nel 1969 a causa delle censure ecclesiastiche dovute alla sua attività di oppositore dello «sviluppo», esportato nei paesi poveri come forma più raffinata e pericolosa di colonialismo. Divenne celebre per aver contestato la società industriale, con le sue forme di consumo e gli apparati di servizi (Descolarizzare la società, 1971; La convivialità, 1973; Nemesi medica, 1976). In seguito, fu un acuto studioso delle trasformazioni prodotte dallo sviluppo tecnologico nella percezione di sé e del mondo (Il genere e il sesso, 1982; Nello specchio del passato, 1992; Nella vigna del testo, 1993).

J. B. Greuze, Le fils puni.
Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini ... Lo trovò presto: la biblioteca piccola, silenziosa, illuminata e vuota … Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della Morte del giusto di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, tra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinnanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno.
(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, pag. 223).

Nessun commento:

sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»