mercoledì 7 luglio 2010

Ricostruire l'etica?

Ci si chiede: è possibile una etica globale? A questa domanda si potrebbe rispondere: è possibile nella misura in cui l'etica sappia accogliere – attraverso un duro lavoro, un parto – tutte le differenze. Come in una costruzione, dove ognuno ha la possibilità di apportare, di aggiungere il proprio mattoncino. Nulla da obbiettare alla risposta, che condivido. Ma il dubbio, più che nella risposta, mi coglie nella domanda, e non solo nella sua formulazione ma anche nella possibilità stessa di pensare un'etica che sia “globale”.

Una parete della casa di Alda Merini

Parlare di globalità non significa inevitabilmente ritornare a riconoscere la necessità di una risistematizzazione? Di una nuova ennesima costruzione che raccolga in un unico sistema teorico una etica, concepita – in questa forma – come un insieme normativo, morale, comportamentale che valga da Est a Ovest, da Nord a Sud? Mi chiedo allora: occorre giungere ancora una volta ad una sintesi? E le macerie dei grandi sistemi, delle grandi narrazioni, sulle quali camminiamo, allora, a cosa sono servite? A cosa servono? La metafora delle rovine, di ciò che era e che ora non è più (ne resta solo la memoria, il resto, i resti) vale nella misura in cui si ha il coraggio di riconoscere la debolezza, la nudità, la spoliazione: prima di tutto un atteggiamento (etico?); un modo di guardare al crollo delle vecchie narrazioni; l'impossibilità di giungere (con identiche formulazioni) ad una ricostruzione dell'etica.

L'etica che parte dalla casa (oikos) si muove nelle stanze, tra gli oggetti della vita quotidiana, e attraversa ogni momento della giornata, dal risveglio al riposo. E non si può prescindere da questi oggetti, dalle cose, che devono riacquisire ai nostri occhi il loro essere cosa (la loro “cosalità”). Come quando, conclusa una nevicata, d'inverno, si guarda fuori dalla finestra: le cose appaiono ricoperte da un sottile strato di neve che le restituisce alla loro forma, distraendoci per un attimo dalla loro funzione, dalla loro utilità, dal loro essere strumento. Una visione non utilitaristica delle cose, forse più estetica, più vicina alla poesia e più lontana dalla tecnica.

La tecnica. É possibile una etica della tecnica? Non dico della scienza, ma della tecnica che, inevitabilmente, pone il problema della dimensione. Ché il sistema tecnico si basa sulla ripetibilità estensiva dei propri principi; si muove all'interno di paradigmi definiti che vengono assunti per universali. A cosa servirebbe allora la tecnica, se uno strumento (e il principio che lo regola) non fosse utilizzabile e verificabile in ogni parte del mondo, indistintamente? La tecnica è globale (lo pretende). E lo si vede con la “globalizzazione”. Per questa ragione una etica applicata alla tecnica (se ciò fosse possibile) non potrebbe che essere globale. Estesa in ogni luogo, al di là delle differenze. Ma questa non sarebbe ancora una volta una formulazione assolutistica?

Più una etica è globale più essa è “grande”, più si estende per confini ampi e lontani; più è lontana dalla casa (che è piccola, proporzionata alla vita). Ci si allontana quindi dalla finitezza di un'autobiografia, di una vita vissuta e intessuta di storia; che non può che essere personale; che non può che essere circoscritta a un certo limitato numero di conoscenze, di rapporti, di amicizie, di amori. I tentativi di vita, gli atteggiamenti sommessi che animano la nostra esistenza, trovano spazio negli interstizi lasciati liberi tra le vite delle persone, nei loro rapporti. E però non bisogna abbandonarsi alla tentazione di riempire questi spazi con nuove costruzioni, nuovi edifici monumentali che rischiano di farci dimenticare che su quel campo sterrato c'erano solo macerie, e più sotto ancora qualche fossile. Altrimenti nessuno si ricorderà della storia, della materia di cui sono fatte le biografie delle persone.

Vicino a casa mia c'era uno stadio: è stato demolito ed ora è un campo di erbacce. D'estate i bambini, aprendo furtivamente i cancelli, vanno a giocarvi a calcio. È un gesto di profonda libertà, di gioia, di scoperta; di appropriazione di un luogo vuoto che nessuno usa, privo di vita; di anarchia. E però c'è chi su quel campo vorrebbe tornare a costruire: case, palazzi, un nuovo e più moderno impianto sportivo. I bambini andranno a giocare altrove, ma quello spazio sarà riempito, sottratto alla libertà di occuparlo, alla possibilità di viverlo; fino alla prossima distruzione, fino alle prossime macerie.

È per questo che l'idea di una ricostruzione monumentale, globale, dell'etica non mi entusiasma e non mi convince; e sinceramente non ne sento la necessità. Preferisco, d'estate, scavalcare i cancelli di quel campo abbandonato e andare a vedere – ancora – i ragazzi del quartiere giocare.

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sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»