giovedì 29 luglio 2010

Guerra lontana, parole lontanissime

Si continua a morire in Afghanistan. Ciononostante sembra che non se ne parli abbastanza. La calura di questi giorni d'estate; il clima balneare e il silenzioso abbandono delle città certo non aiutano a guardare alla tragedia: tragedia annunciata e vissuta con ben più terrore dagli Usa, con i loro 1200 morti. Si fatica a sentire – lontano – le raffiche dei mitra, le esplosioni delle bombe, i blindati che saltano. Si fa fatica e non si ammette, fuggendo, l'immensità di questa guerra. Anche se, timidamente, già da qualche tempo i telegiornali non fanno più mistero che di questo effettivamente si tratta: di guerra. Ché prima la parola “guerra” era bandita, assolutamente.


Eppure, nonostante si cerchi in tutti i modi di volgere altrove lo sguardo, le rassicurazioni di militareschi ministri della Difesa appaiono ormai per quello che sono: la recitazione di una parte, di una dolente pantomima necessaria e mai richiesta. Una parodia del dolore, in nome di chissà quali valori.

La gente se ne accorta. E forse è per questa ragione che preferisce guardare altrove, distrarsi. Gli unici che sembrano non essersene accorti sono loro: i combattenti, chi su quelle lande desolate perde, e fa perdere, la vita. I soldati che hanno di fronte la guerra e che, nonostante questa evidenza che gli si apre di fronte, a pochi metri, ogni giorno continuano a chiamarla “missione di pace”; cosa che neanche i politicanti nostrani fanno più. E fa male, quasi più delle morti, che restano e sono lontane, sentire dalla voce di questi soldati chiamare il nemico “insurgents”. (Termine inglese che sta per “insorto”. Ma che appare, ancora una volta, la parte di un copione scritto da altri; come a dire: le parole della guerra non sono nostre, sono di chi ci ha mandato qui). Questo pudore che spinge a non chiamare il nemico con il suo vero nome, attraverso una serie di eufemismi rigorosamente americani, fa parte del grande nascondimento che viene riservato alla guerra afghana. Forse avremmo bisogno di un nemico che sia sentito in quanto tale, non di un nemico nascosto, lontano, impercettibile. Ché certo un nemico avvertito (al di là del fatto che è chiarissimo chi in quella situazione è l'occupante) sarebbe troppo coinvolgente. La gente potrebbe dire: siamo in guerra contro “il nostro” nemico. Ma così, un “insurgents”, che volete che sia! È solo un “ribelle”. Cose da specialisti, insomma.

E ormai anche i funerali dei soldati sono sempre più nascosti. Non ci toccano più. Le vedove stesse, che appaiono in televisione recitando – anche loro – una parte che qualcuno gli ha scritto, mostrano che i loro mariti erano soldati, lo erano innanzitutto, professionalmente. Morire? Fa parte del mestiere, è uno dei rischi possibili: niente paura. Come se in tutto questo si cercasse di giustificare una morte. Quando la morte ormai non è più umana, ma di Stato. E dire che basterebbe il silenzio, come segno di pietà: un urlo sarebbe, il silenzio. Un grido lanciato lontano dalle telecamere, che – forse – potrebbe far sorgere una domanda: perché?

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sicilitudine:

«la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell’arte»